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La Balkan Route è un corridoio geografico che attraversa la Grecia, risale verso Macedonia e Serbia, puntando da lì verso i paesi dell’UE. In principio era l’Ungheria, poi con la creazione dei muri e il rafforzamento delle frontiere da parte del governo fascista di Orbán il flusso si è spostato verso la Croazia. Utilizzata da sempre dai trafficanti è una rotta che è stata chiusa con l’accordo turco-europeo del marzo 2016.

Corre la fine dell’anno 2017. È  il 19 Novembre. Una fredda e buia notte lungo i binari che separano la Serbia dalla Croazia. Una gruppo di persone supera la frontiera e viene catturata dalla polizia croata. Vengono rimandati indietro: seguite la ferrovia e tornate a Šid. Sono partiti dall’Afghanistan  da più di due anni. Hanno attraversato a piedi le frontiere di tanti paesi. Sono la famiglia Hosseini.

Li ho conosciuti qualche mese prima a Bogovadja, in Serbia, in uno dei centri per richiedenti asilo del paese. Tra loro, la piccola Madina.
Le immagini che non riesco a togliermi dalla mente sono quelle del corpo insanguinato di Madina, sei anni di età, occhi grandi e scuri, travolta da un treno quella fredda notte di Novembre, in Europa.

Andavano al game. Il tentativo di attraversare illegalmente le frontiere, a piedi nei boschi, lungo le montagne, in mare sui barchini, a nuoto nei torrenti e nei fiumi.

„I go game“.

„see you in Europe!“

„I walked 15 days in the jungle, police catch me, deport me“.

„police beat me, took money, no phone“.

„in the night was cold“

„I saw animals, I was scared“

„I was going to die, me no swim good“

„fuck police“

Quante storie, quante persone ho ascoltato in questi due anni lungo la Balkan Route?  Quanti di questi racconti sono uguali? Quante persone adulte ho visto piangere? Quante volte ho detto loro „be strong, you can do it, you must try again“?

Quanti bambini ho visto tornare dalle jungle infangati e infreddoliti? Quante volte li ho visti partire con gli zaini più grandi di loro?

Quante scarpe rotte ho trovato lungo i sentieri e i boschi dei Balcani? Quanti documenti stracciati? Quanti fuochi spenti? Quanti cellulari distrutti?

Chi sono queste persone che di notte attraversano i campi minati tra i confini della ex Jugoslavia, le montagne oramai innevate, i fiumi gelati, pericolosi e traditori anche d’estate?

Sono gli invisibili.

Invisibili quando si muovono tra le stazioni. Quando a Milano i minori non accompagnati vengono rapiti dai trafficanti in stazione Centrale che devono pagare per poter andarsene. Uno di loro è S. che è diventato „famoso“ perchè ha fatto parte di una delle campagne di MSF sull’infanzia e ora è di nuovo sparito, inghiottito dal sistema per i richiedenti asilo in Germania. Anche lui, con i suoi fratelli lo avevo conosciuto a Bogovadja, da dove poi erano partiti per la Bosnia, dove sono stati diversi mesi dormendo in una tendina e cercando di andare al game più volte.

Invisibili quando salgono sui treni o sugli autobus e si mischiano alla folla  nella speranza di non essere riconosciuti come corpi estranei del sistema. Non parlano sul treno che li porta in Germania o in Francia, sanno che non possono essere scoperti. Si sono vestiti bene, hanno lasciato i vestiti sporchi del viaggio da qualche parte e cercano di apparire normali cittadini in viaggio con il trolley, direzione Berlino o Parigi.

Sono già passati, da Ventimiglia, da Bardonecchia, dal Brennero e non vogliono tornare indietro.

Si fanno piccoli nei bagagliai delle macchine per attraversare i confini, per nascondersi tra gli alberi e le rocce. Di notte, tra i boschi si sentono i passi e i respiri. Gli ululati dei cani, il rumore sordo dei colpi dei manganelli, le urla quando vengono pestati dalla polizia e rimandati indietro pesti e insanguinati.

Corrono gli invisibili, con quelle scarpe rotte, giù dai sentieri della Plješevica, giù per la Val Rosandra e dappertutto in Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia gli ambientalisti si indignano perchè lasciano rifiuti.

Rifiuti gettati a lato della strada: vestiti, bottiglie, cibo, e guanti in lattice. Sono quelli della polizia che fa svuotare gli zaini a Lohovo, a Kulen Vakuf, sulle strade dove vengono fatti i respingimenti.

„do you want that I bring something in Italy for you and I send it to Germany when you arrive?”

E’ un po’ stupita dalla mia domanda H., ha 24 anni, viene dall’Afghanistan ed è in Serbia da due anni. Ha finito i soldi. Ha cercato di andare al game innumerevoli volte.

Le dico che altri suoi compagni di viaggio mi hanno dato dei loro ricordi, dei loro oggetti e che adesso che sono in qualche paese dell’UE glieli ho mandati.

Le dico: se hai qualcosa a cui tieni e che non vuoi perdere al game, lo porto con me e poi te lo spedisco.

Sorride amaramente e mi dice: „The only valuable things we have are our bodies. We have nothing to lose, but our lives”.

Sono ancora in Serbia H. e R. non hanno più soldi, non hanno più sogni.

Vengo taggata in una fotografia su Facebook. Sono altri due amici. C’è un piccolo carillon  appoggiato alla finestra. So che musica suona, è la vie en rose. E so che quella è una finestra di Parigi.
Dopo diversi mesi in Serbia e tre mesi in Bosnia in uno dei campi informali al confine con la Croazia, O. e E. sono arrivati in Francia. Una delle ultime volte che avevano provato ad andare al game dalla Serbia, la polizia croata li ha trovati nascosti nel cassone di un camion e gli ha portato via lo zaino. Dentro lo zaino c’erano poche cose tra cui il primo regalo che O. aveva fatto a E. Un piccolo carillon.
Introvabile in Serbia, sono riuscita a trovarne uno in Italia e gliel’ho mandato. La vita non si ferma, la vita va avanti. Spero che il loro ricordo di quando stavano annegando nella Drina svanisca presto.

Quest’estate quella mattina di Luglio faceva caldo, tornavo da Belgrado con un nuovo gruppo di volontari. Mi raggiunge la notizia che la piccola Dunja Bibi è morta. Quando l’ho conosciuta un anno e mezzo fa camminava, era una bambina paffutella con gli occhiali e un occhio lo teneva bendato per correggere lo strabismo. Se n’è andata dopo un anno e mezzo in un campo profughi in Serbia senza che nessuno potesse fare niente per curarla da quella malattia neuro-degenerativa. Il suo cuore e i suoi polmoni sono stati gli ultimi a cedere. Ero riuscita a trovare su Amazon delle siringhe coniche per il sondino naso-gastrico. Ne è bastata una sola. La vado a trovare al cimitero ogni volta che posso quando sono lì.

Cosa dici a un ingegnere di sessant’anni che piange tra le tue braccia perchè deve dare i sonniferi alla sua bambina di un anno per farla dormire senza che si svegli sotto un telone di un camion? Chi sei tu, per fargli coraggio, che non riesci a capire dove queste persone trovino la forza o l’incoscienza di farsi trasportare come le foglie dal vento, verso questo sogno chiamato Europa?

Loro sono tra noi e sono l’esercito degli invisibili. Ed è giusto che gli si dia una voce, un volto e un nome.

Anche ai morti.

E questo elenco, è solo un piccolo elenco parziale dei morti che ho trovato facendo ricerche in rete, e riguarda solo il  2018 e solo Bosnia Serbia Croazia e Slovenia, alle porte d’Italia.

Non devono essere invisibili.

Data Luogo Motivo Nazionalità Sesso Identità
31/01/18 Fiume Kupa – Località Ladešići – Confine Croazia/Slovenia Annegamento N.N M N.N.
02/02/18 Fiume Kupa – Località Učakovci – Confine Slovenia/Croazia Annegamento N.N M N.N.
08/03/18 Autostrada altezza di Ruma – Serbia Investimento N.N. M 2 N.N.
09/04/18 Fiume Kupa (parte slovena) Annegamento N.N. M N.N.
23/04/18 Fiume Sava – Comune di Obrenovac – Serbia Annegamento Afghanistan M 18 anni
30/04/18 Fiume Korana – Località Pavlovac – Confine Croazia/Slovenia Annegamento N.N M N.N.
30/04/18 Fiume Kupa – Località Žakanja – Confine Croazia/Slovenia Annegamento N.N M N.N.
30/04/18 Fiume Kupa -Località Preloka – Confine Slovenia/Croazia Annegamento Algeria M N.N
21/05/18 Fiume Kupa – Comune di Metlika – Confine Slovenia/Croazia Annegamento 1 N.N. M N.N.
21/05/18 Fiume Korana – Villaggio di Sturlic – Comune di Cazin Annegamento Afghanistan M Omaru Khanu Momandu
28/05/18 Fiume Drina – Comune di Zvornik – Confine Bosnia/Serbia Annegamento N.N M N.N.
03/06/18 Fiume Kupa – Località Gornje Prilišće – Confine Slovenia/Croazia Annegamento N.N M N.N.
15/06/18 Velika Kladuša – Bosnia Accoltellamento Marocco M n.n. 24 anni
28/06/18 Località Obrov – Slovenia Ritrovato corpo decomposto senza mani e testa Iran (?) M N.N.
05/07/18 Fiume Una – Comune di Bihac – Bosnia Annegamento N.N. M N.N.
26/07/18 Bihac -Bosnia Meningite Pakistan M Hassan Muhamed 19 anni
01/08/18 Dobrinci (Ruma) – Serbia sparatoria N.N. M 2 N.N.
12/08/18 Località Tomići – Comune di Dreznica – Croazia Frana Algeria 2 M 33 e 39 anni
17/08/18 Fiume Drina – Località Tabanci – Comune di Zvornik – Bosnia/Serbia Annegamento Presunto migrante (fonte non ufficiale) M N.N.
09/09/18 Sarajevo – Bosnia Tumore al cervello Marocco M Azzedinne Chekik (25 anni)
07/11/18 Ospedale di Cazin (trasportato da Šturlić – ritornati dal game?) – Bosnia Morte naturale Siria M A.Dž,(Iom ha le sue generalità era la campo Sedra) – 54 anni
11/11/18 Fiume Drina – Località Roćević Comune di Zvornik – Bosnia/Serbia Annegamento Presunto migrante (fonte non ufficiale) M N.N.
18/11/18 Fiume Drina – Località Tabanci – Comune di Zvornik – Confine Bosnia/Serbia Annegamento Presunto migrante M N.N.
27/11/18 Fiume Reka – Località Topolc – Comune di Ilirska Bistrica – Confine Slovenia/Croazia Annegamento Algeria M Nasim (25 anni)
29/11/18 Fiume Dobra  – Località Protulip Skubinov slap – Confine Croazia/Slovenia Annegamento Siria M Ahmad Ibrahim (44 anni)
01/12/18 Campo profughi di Adaševci – Serbia Ferita alla testa N.N M N.N.

Ho smesso di scrivere con regolarità. Sono stata tanti mesi in giro, tra la Bosnia e la Serbia. Troppi viaggi, troppi pensieri, troppe storie orrende.

Ma sta finendo l’anno e questo 2018, che è il secondo anno da quando è in vigore l’accordo turco europeo che doveva chiudere la rotta balcanica è quasi finito e allora eccomi.

Noi nel frattempo in Italia abbiamo dato vita a uno stato fascista, ma per fortuna lungo il cammino sto incontrando tante belle persone, solidali, che si danno da fare e che si indignano.

Se digitate in un qualunque motore di ricerca Bihac e Migranti, o Bosnia e migranti, saprete come stanno andando le cose quest’anno. Le rotte e i flussi migratori non si interrompono: cambiano forma, cambiano confini, cambiano i fiumi e cambiano le montagne, ma ricordate: ain’t no mountain high enough.

Se volete informarvi, su quello che succede nei Balcani dopo il Marzo 2016, beh potete farlo per esempio qui, a partire dai primi due link, che sono le pagine di due amici.

https://lungolarottabalcanica.wordpress.com/

https://dip.news/

https://it.euronews.com/2018/11/30/i-migranti-accampati-tra-croazia-e-bosnia

https://www.nytimes.com/2018/12/08/world/europe/migrants-bihac-bosnia-croatia.html?action=click&module=News&pgtype=Homepage&fbclid=IwAR1RF423Ho5R7TUDkb-gDkfBL5gdEGAjrceGzd-1O9knc1I6aRZ5-u-RO2s

https://www.bbc.com/news/av/world-middle-east-46503755/iran-s-migrants-trying-to-get-from-serbia-to-the-uk

 

 

 

 

 

 

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Da dicembre dell’anno scorso, la Bosnia ha visto un crescente afflusso di persone in fuga da guerra e persecuzioni. I numeri, piccoli all’inizio, non hanno destato particolare allarme. Si trattava in particolare di giovani uomini che avevano trovato ricovero nei parchi e nelle strutture abbandonate intorno a Sarajevo. Decine, una cinquantina, adesso si dice siano quasi duecento. Da un mese circa, i numeri si stanno alzando. Agli uomini si uniscono le famiglie con bambini, i paesi di provenienza stanno mutando e da Sarajevo le persone si spostano verso i confini della Bosnia occidentale, in particolare Bihać e Velika Kladuša. Qui si dice che ci siano quasi 400/500 persone.

Il relativamente facile passaggio lungo le ampie frontiere non controllate tra Bosnia e Croazia, ha dato il via a un movimento sempre più ampio di persone che da due anni si trovano bloccate alle porte d’Europa, lungo la Balkan Route.
La presenza di siriani tra le persone che cercano di uscire dalla Bosnia – per chi conosce la geografia e la demografia dei campi profughi allestiti nei balcani –  fa capire che c’è una rotta meridionale (Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia) mentre la presenza di Afghani e Pakistani indica l’apertura di una rotta nord-orientale (Serbia).

La Polizia croata ha repentinamente messo in campo nuove misure di sicurezza lungo le nuove zone di passaggio, dando il via a respingimenti con uso eccessivo di violenza, come testimoniano le parole dei migranti che incontro a Bihać, che non sono diverse da quelle che mi raccontano i migranti che tentano da anni di attraversare tra le Serbia e la Croazia, al confine settentrionale di Šid.

Persone ferite, cellulari spaccati, passaporti requisiti, soldi rubati. I migranti vengono riportati al confine con le camionette e ributtati in Bosnia, dove, con il permesso temporaneo di richiesta di asilo (durata tre mesi), possono soggiornare regolarmente.

Chi ha i soldi, dorme negli ostelli e negli alberghi e per le categorie vulnerabili (donne con bambini) è l’UNHCR che paga le strutture di accoglienza (ma in particolare a Sarajevo e Bihać cominciano a lamentare il fatto che tra poco inizia la stagione turistica). Chi non ha i soldi dorme nel parchetto di fronte alla biblioteca di Sarajevo o nella zona termale di Ilidža (dove nel frattempo il mondo arabo costruisce resort e alberghi a 8 stelle) o nelle strutture abbandonate distrutte dalla guerra. Esiste un centro per richiedenti asilo a Delijaš, lontano da tutto, tra le montagne poco lontano da Sarajevo. Può ospitare meno di duecento persone, non prende la rete cellulare, non ci sono negozi e tanto meno Internet. I migranti, piuttosto che andare lì, preferiscono dormire sotto le stelle.

A Bihać le persone hanno scelto come loro sede un ex dormitorio per studenti, vicino al campo da calcio e alla facoltà islamica e un ospizio devastato lungo il fiume Una. E’ qui che ogni giorno un team di operatori e volontari della Croce Rossa di Bihać distribuisce pasti caldi, vestiti, scarpe. Anche qui come a Sarajevo all’inizio i profughi stavano nel parco cittadino dove due piccole organizzazioni locali cercavano di aiutare come potevano. Con l’arrivo di numeri diversi e sempre più importanti e con l’attenzione dei media locali in crescita, il sindaco di Bihać ha dato incarico di coordinamento alla Croce Rossa che si sta veramente facendo in quattro per gestire questa nuova emergenza. Parlando con il coordinatore locale, dice che  “si parla di almeno mille persone che arriveranno e resteranno qui prima dell’estate”. E che “attraversare le frontiere con la Croazia sarà sempre più difficile”.

Quello che molti migranti inoltre non sanno è che i confini che vogliono attraversare, lungo la dorsale che da Kladuša scende sotto Bihać, tra i boschi della Petrova Gora, la montagna della Plješevica e le piste abbandonate dell’aeroporto di Željava, sono tra i più minati della regione.

Parlavo di questo con una famiglia ospite al  campo di Bogovadja, dove lavoro in Serbia, che si apprestava ad andare lungo la nuova rotta.

“Hanno aperto un confine, Zilbia!”
“No, i confini sono chiusi, forse alcune persone sono riuscite a passare da una nuova strada”.
“Il nostro smuggler ci ha detto che adesso passeremo dalla Bosnia, basta camion con la Croazia…”
“Se passate dalla Bosnia, vi faranno andare da Bihać, è la cosa più probabile. Ma dovete stare attenti, se vi mandano a piedi nei boschi o in montagna, guardate questo cartello”. Mostro loro le foto che ho scattato alcuni anni fa in tutta quella zona.

La donna si spaventa, conosce il segno col teschio su sfondo rosso. Mi chiede quante ce ne siano. Cerco di tranquillizzarla, ha una bambina piccola piccola, le dico che deve camminare sui sentieri e sdrammatizzo: “se devi fare la pipì, falla sulla strada, non importa se ti vedono”. Ridono. Mi consegnano delle spezie, un quaderno con delle lezioni di inglese e spagnolo, un mini pimer e altre cose personali. Mi dicono: ce le dai quando siamo in Europa.

Loro, come molti altri dei migranti bloccati in Serbia, stanno cercando da anni di attraversare le maledette frontiere. Hanno sentito di qualcuno che ce la fa dalla Bosnia e come molti altri, si stanno rimettendo in cammino. Destinazione finale? Norvegia, Svizzera, forse Germania. Confusi sul sistema d’asilo, sulle leggi e i diritti, sulla geografia. Non hanno niente da perdere, se non la vita. Migrano, come le foglie che si staccano d’autunno e si fanno trasportare dal vento.

Mi arriva un loro messaggio, il 26 aprile: “the smugler cheet to us. There were no car. We stay 2 days in jungel. Last night with a smal boat cross the river and all night walking. There were no guid man. Just show the map to one pasenger and in grups 8 person we came. baby has sick, now we are in tuzla and go sarajevo”.

Stanno aspettando un passaggio giusto, sono in contatto con un trafficante locale “he speak english and arabic”. Ogni giorno cambia piano. “Tomorrow no go, is this holiday in slovenia and croazia,  driver say that is to much police and control”. Mi fa sorridere pensare che né lo smuggler né i migranti sappiano cosa sia il primo maggio “this holiday” che fa aumentare i controlli della polizia…

Sono arrivata a Bihać da pochi giorni e faccio qualche giro alla stazione dei bus, per vedere cosa succede. Vedo dei ragazzi che ho incontrato il giorno prima alla distribuzione dei pasti che salgono sui bus per Velika Kladuša. Io loro li riconosco a distanza, dal modo in cui camminano, dalle loro scarpe, dal taglio di capelli, e dagli zaini che si portano sulle spalle. Uno di loro invece non mi riconosce, e chiede dei soldi al collega di fianco a me, “I need to go to … vka..slladss..”. Migranti alle prese con questa dura lingua slava e l’impossibilità di pronunciare bene i nomi dei paesi.

Al tempo stesso mi rendo conto che sono arrivate delle persone scese dal bus di Sarajevo. Qua dicono che ogni giorno scendono 50/60 persone dalla capitale. Alcune di loro tenteranno di attraversare il confine a Željava o sulla Plješevica, altri più a nord, verso la Petrova Gora. In un piccolo gruppo seduto sul marcapiede vedo una donna col velo con 3 bambini, è la seconda dopo quella che ho visto il giorno prima all’ex studentato. Sono poche, rispetto al numero dei single men che si vedono sinora, ma ieri pomeriggio un messaggio dalla Croce Rossa mi dice che adesso ci sono 160 persone e nuove famiglie sono arrivate, non sanno dove farle dormire.

I volontari sul campo sono affaticati e un po’ disorganizzati, fanno turni in magazzino, per la distribuzione di colazione, pranzo e cena, e non capiscono la mancanza di risposta e l’abbandono da parte del governo e delle grandi organizzazioni internazionali, che possono far solo deteriorare la situazione. Le persone nel Cantone di Una Sana cominciano a raccontare di furti e violenze. Più amici mi raccontano di aver sentito la storia da un amico che ha visto con i suoi occhi come dei migranti chiedessero informazioni e mentre la persona rispondeva venisse rapinata da altri migranti. Questa tecnica pare sia stata messa in atto: alla porta di una casa (e il migrante è entrato dalla finestra) – dal finestrino di un auto (il migrante rubava la borsa dal sedile del passeggero) – per strada (scippo di borsa). In tre posti diversi (Kladuša, Bihać, Otoka). Non credo sia vero, ma il segnale non mi piace per niente. Sono le stesse storie che sentivo quando andavo al confine a Šid. E’ certo vero che il minore controllo delle persone che vivono all’aperto e non nei campi, fa alzare la percezione di insicurezza da parte delle persone del posto. Ed è statisticamente vero che nella popolazione migrante ci siano individui propensi alla violenza o al crimine, così come in un qualunque campione demografico nel mondo. Peccato che la manipolazione di queste persone sia esercizio oramai comune, come tutti sappiamo. Le destre europee e i movimenti xenofobici cavalcano da anni la tigre dello straniero invasore e violento per accaparrare consensi tra la popolazione più ignorante, nascondendo i reali problemi.

Nel frattempo, il governo bosniaco tiene un profilo basso sulla questione, così come l’UNHCR che ha cominciato a indire riunioni settimanali di coordinamento. Al momento sembra che non si vogliano aprire nuove strutture, tant’è che un gruppo di volontari di Sarajevo ha portato e montato le tende davanti alla biblioteca. E’ evidente che non si vuole creare un nuovo imbuto e aumentare il pull-factor per chi dai campi di Grecia e Serbia si vuole spostare. Tra l’altro la Serbia, che da 7.000 profughi dello scorso anno è arrivata ad accoglierne ad oggi meno di 4.000, ha appena ricevuto dall’Unione Europea 10 milioni di euro per gestire i 18 campi governativi per migranti e richiedenti asilo.

Di fatto, per ora, ricade tutto sulle spalle di associazioni, cittadini, volontari piccole organizzazioni. Summer is coming…

“I am ashamed to say that smugler change his speak. Every day he said tomorrow you go but he canceled. To night he swear to God tomorrow he send us”.

Gli rispondo: “smugglers are really bad persons, but tomorrow is a new day, maybe is the good one. Keep safe”.

“Ok, thank you. Inshallah it is”.

 

Ottobre ha portato in Bosnia un paio di avvenimenti che mi piace leggere insieme.

Intanto, la data. Uno è finito il 15 ottobre, l’altro è avvenuto il 15 ottobre. A tenere insieme il tutto, era il giorno di Kurban Bajram, una delle più importanti festività islamiche. Se a qualcuno piace leggere le coincidenze nei numeri, qui ne abbiamo un po’.

I fatti: sto parlando del censimento della popolazione, la raccolta dei dati legati alla popolazione della Bosnia Erzegovina.  In questo caso, parliamo del primo censimento dal 1991 (quando ancora c’era la Jugoslavia), con in mezzo una guerra feroce, una divisione amministrativa folle e un dopoguerra che ancora non si è ben capito dove si stia andando. I risultati saranno pronti tra 90 giorni (forse) ma ci vorrà più di un anno per elaborarli in toto (vedremo se coincideranno con le partite di calcio del Mondiale 2014 e la fine del Ramadan? o con le prossime elezioni amministrative?).

L’altro tema riguarda l’epica qualificazione della nazionale della BiH ai mondiali.

E perchè li vedo come un fenomeno collegato.

Il censimento, voluto fortemente dalla comunità internazionale, sono secoli che cercano di farlo. Abortito più volte, alla fine si è giunti a una quadra e dopo prove, controprove e debutti mai completi, finalmente si è andati casa per casa a raccogliere dati. Del resto, per entrare in Europa bisognerà pur sottostare a prove di democrazia e altre richieste no? La stella va guadagnata, mica la si regala così….

Al di là del voler sapere se in casa la gente ha il bagno e la cucina, ho trovato molto interessanti i dati sulla diaspora e sul passato legato al conflitto (durante la guerra eri in BiH o all’estero? se eri in BiH eri nel tuo luogo di origine o ti sei spostato? e dopo la guerra?) perchè ci danno la foto delle migrazioni (rifugiati, sfollati, migranti per lavoro etc).

Ma sopratutto le tre domande più calde che hanno agitato gli animi erano tre:

1) nazionalità

2) religione

3) lingua parlata

Il problema è che le risposte previste erano…. le solite. Cioè, quelle che da anni rendono questo paese un groviglio ingovernabile che non dà voce alla sua gente, ma si interessa solo delle tasche gonfie dei suoi amministratori.

Quindi, se la BiH è tripartita, le risposte erano 3. Ovvero: Bosgnacco, Croato, Serbo. E Rom, Ebrei etc che combattono da anni una lunga lotta per vedersi riconosciuti come comunità rappresentativa all’interno di questo stato, non ce l’hanno fatta ancora, a farsi dar ragione dalla corte dei diritti umani.

Certo, c’è una casella “ostali” ovvero “altri” in cui la popolazione poteva inserire la propria appartenenza, la domanda è: le persone per una volta si saranno finalmente dimostrate coraggiose e avranno dichiarato “io sono bosniaco della Bosnia Erzegovina” (con ciò che sotto intende, ovvero un concetto un po’ jugo-retrò di fratellanza e unità che in piccola misura ancora sopravvive tra i confini di questo Stato) oppure si saranno piegati come pecoroni alle logiche di potere che governano (male) questo Paese?

Non mettere Bosanac (bosniaco) dicevano i bosgnacchi ai loro co-religionari. Altrimenti il sangue degli Sehid sarà stato versato invano, abbiamo combattuto per la patria!
Certo, se in televisione nelle tribune politiche televisive, le dichiarazioni di grandi letterati/storici/giornalisti erano : “la legge sul censimento è la continuazione del genocidio!  Centinaia di migliaia di bosgnacchi spariranno!” possiamo capire la forza della propaganda messa in campo.

La stessa cosa la dicevano i croati ai loro pari: non mettere Bosanac, perchè siamo già in pochi, saremo ancora meno! Anche il cantante Thompson, un nazionalista osannato dalle folle (in particolare gli ustascia) in un recente concerto in Erzegovina lanciò l’appello a rispondere al censimento, dando voce alla propria gente.

I serbi invece, non hanno bisogno di dire niente alla propria gente. Non temono i numeri e sono saldi nelle loro certezze.

Sono girati video (alcuni più ironici, altri profondamente nazionalisti) per appellarsi all’unità della dichiarazione.

La paura di tutti? Non esserci.

Al punto che quelli della diaspora, cittadini che vivono oramai da anni fuori dalla Bosnia, sono tornati in patria nel periodo del censimento, per alzare le cifre.
Ed è questo il problema in BiH e da sempre, il balletto delle cifre. Ci sono cittadini che vengono apposta a votare, a farsi censire, con doppie, triple cittadinanze, strumenti delle cerchie di potere, che non ci dicono mai la verità.

Quanti sono i cittadini reali che vivono in BiH e in quanti ci vivono qua?

Ma sopratutto, cosa pensano?

Io conosce persone (di tutte e 3 le parti) che mi hanno detto e spergiurato: io mi metto come “altro”. L’avranno fatto veramente? Ci sarà stato il coraggio di evocare a gran voce uno Stato che si chiama Bosnia Erzegovina abitato pacificamente da serbi, croati, bosgnacchi, jugoslavi, ebrei, rom e chi altro ci voglia stare in pace?

Non lo so.

Al pari di questa riflessione, non è che le risposte su religione e lingua andassero in altra direzione (a parte che trovo folle che ci sia l’opzione ateo/agnostico e non ebreo, che insomma, non è proprio l’ultima grande religione al mondo…).

2) religione – islamica, cattolica, ortodossa, ateo, agnostico, non risponde, altro

3) lingua parlata – bosniaco, croato, serbo

C’è di buono che da ora in poi chiunque osi nuovamente mettere in discussione il fatto che con l’associazione della quale sono volontaria organizziamo un corso di serbo-croato-bosniaco e regolarmente mi trovo a litigare con dei fanatici nazionalisti che ci accusano dicendo che il bosniaco non esiste come lingua. Del resto sono le stesse persone che affermano che la BiH non esiste come Stato, quindi è inutile cavare il sangue da una rapa, come si suol dire.
(A proposito, per chi volesse iscriversi, il corso di SCB inizia l’11 novembre e si svolge a Milano – http://ipsiamilano.org/2013/10/01/corso-di-serbo-croato-bosniaco-aperte-le-iscrizioni )

E ora dopo il panem, vediamo i circenses. Il giorno in cui il duro lavoro dei sottopagatissimi censitori si è concluso, si è in primis festeggiato il Kurban Bajram, e la sera la nazionale di calcio bosniaca si è qualificata ai mondiali del Brasile 2014.

E’ un risultato strepitoso, che vede premiato il grande sforzo degli atleti e della dirigenza di questa rappresentativa. Nonostante la durissima opposizione a questa squadra, che di fatto  sono anni che viene lacerata anche in questo caso da faide politiche in chiave nazionalista (pochissimi giocatori non bosgnacchi tra le sue fila), i giocatori e il suo allenatore sono riusciti ad appassionare i tifosi e a raggiungere un risultato che porta la nazionale tra i Big senza spareggio.

Certo, parliamo ancora oggi di una nazionale che canta un inno senza parole perchè non ci si è messi d’accordo sul testo e che di mixitè vede ancora poco tra le sue fila, però è un fenomeno crescente.

E’ vero, a Banja Luka non c’erano i fuochi d’artificio e le feste che c’erano a Sarajevo, così come l’Erzegovina avrà avuto nella sua parte bianca e rossa altro da fare la sera della partita, ma io credo e spero che questa euforia collettiva (insieme alla mancanza di altre squadre da tifare ai mondiali, specie se la Croazia non passerà) un pochino faccia appassionare anche quelle persone non completamente obnubilate dalla propaganda etno-nazionalista che governa il Paese.

Sogno un 2014 in cui i mondiali coincidano con i risultati di un censimento che faccia capire al mondo, all’UE, ai politici bosniaci che la gente che ci vive non è così incasellata come vorrebbero loro e che l’odio che si sta cercando di mantenere in circolo sia oramai appannaggio delle minoranze più ignoranti (pericolose, la storia ce lo dice da sempre, ma pur sempre minoranza).
Chiudo la riflessione con il più impressionante video di propaganda che io abbia trovato in rete, in linea con il mio pensiero di sopra.

https://www.youtube.com/watch?v=IwWpSwMvHCg

Buongiorno

Buongiorno

Di che nazionalità sei?

La mia!

Che cosa sei tu?

Una bambina

Qual’è la tua religione?

La mia religione  è la zia dell’asilo!

(gustosissimo gioco di parole. Vera in serbo è sia religione che un nome proprio, la bambina dice: la mia Vera è la “zia” che lavora all’asilo. Con zia si chiamano affettuosamente le figure femminili che girano attorno ai bambini. Quindi la domanda che la bambina capisce è: qual’è la tua Vera? e lei risponde, quella dell’asilo, senza pensare alla religione)

E qual’è la tua lingua…………….?????

 

vera

 

Cari lettori, condivido le statistiche 2012, puntando a un 2013 altrettanto divertente.

Anche se a quanto pare, nella terra dei cevapi, c’è ben poco da ridere…Cupi nere si addensano all’orizzonte….Tra crisi economica e politica, ministri licenziati che fanno causa al primo ministro, e la non partecipazione a Eurosong (che forse è la notizia è importante dell’ultimo mese) la Bosnia sembra ogni anno che passa un posto ancor più triste e rassegnato dell’anno prima.

Ma trattandosi di un luogo che comincia là dove finisce la logica, non è mai detto che i miei infausti presagi siano veritieri.

Augurandoci un bel 2013, al prossimo aggiornamento! E Grazie della vostra compagnia!

 

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Vent’anni dopo.

Pubblicato: aprile 3, 2012 in Uncategorized
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Vent’anni.

Nella storia del mondo sono una briciola infinitesimale, ma nella vita di una persona (relativamente) giovane, hanno un certo peso. Se 20 anni fa mi avessero chiesto cosa avrei voluto fare nella vita, non so cosa avrei risposto. So che dopo quel 1992 la linea che ho sul palmo del mano mi ha condotto dove dovevo andare. So quanto mi è costato e so quanto è costato alla mia famiglia e ai miei affetti. E so quanto ancora oggi mi e ci costa.

Vent’anni fa avevo meno di 18 anni e per me Sarajevo era un luogo non tanto lontano nel mondo, che qualche decennio prima era stato teatro dell’attentato al baffuto Francesco Ferdinando a cui poi seguì la Prima guerra mondiale. Una data da ricordare negli esami di storia.

Soltanto qualche anno dopo, nel febbraio del 97, misi piede nella città che oggi è un po’ il centro del mio mondo. Con maggiore consapevolezza che Sarajevo non era soltanto una città della ex Jugoslavia titoista, famosa per essere tra i paesi non allineati e dunque un altro dato per i famosi esami di storia, ma era un luogo simbolo della barbarie contemporanea, vittima di urbicidio, resistente nei secoli alle strane pieghe che la storia prende.

Girava e gira tuttora questa storia, che durante gli anni dell’assedio, quando le biblioteche bruciavano e i musei venivano depredati, qualcuno abbia staccato dal pavimento la lastra su cui erano impresse le orme di Gavrilo Princip, posta nel luogo da cui il rachitico studente aveva fatto per caso e per fortuna fuoco all’arciduca. Lì, dove scorre il fiume Milijacka, passò ancora molta acqua e molto sangue, nel corso degli anni a venire.

Il ricordo che ho di quella Sarajevo del 97 è un viaggio lungo, partendo con un furgone rosso da Kljuc, dove l’Organizzazione con la quale tuttora lavoro aveva in atto un progetto di ricostruzione.

A causa di un ritardo nella consegna, non avevo il passaporto, ma mi ero convinta e avevo convinto i miei compagni di viaggio che era sufficiente la carta d’identità. Negli innumerevoli posti di blocco che incontravamo si stupivano un po’ tutti, ma la logica era ferrea: se l’han fatta passare gli altri, allora va bene così…quelle ombre grigie nella burocrazia socialista ancora permettono di trovare strane scappatoie. L’unico problema con quel documento in verità l’ho avuto dalle parti di Dobrinja, dove dei poco concilianti poliziotti ci hanno fatto capire che ci conveniva toglierci di torno in fretta, prima di andare troppo a fondo nel controllo documenti.

Mi ricordo allora le torri dell’Unis sventrate (e mi ricordo che quando mi chiamarono al telefono l’11 settembre di qualche anno dopo, mi ero stupita  che qualcuno avesse tirato giù di nuovo le torri di Sarajevo, sentendomi prontamente dare della rincoglionita), lo scheletro dell’Oslobodjenje, il Parlamento che crollava a pezzi, come del resto tutta la città. Le mine nei cortili a Dobrinja, le case incendiate a Grbavica, i cimiteri improvvisati, le scritte Pazi Snajper.

Poco traffico, macchine d’altri tempi, la Bascarsija sotto la pioggia. Era grigio, il tempo, ma non ho ricordo che fosse freddo, nonostante il periodo. Ero a Sarajevo, la città che dal ’92 avevo cominciato a leggere e vedere nei telegiornali e immaginare.

Oggi sono passati vent’anni. La città ha messo su il vestito della festa, per trovare tracce della guerra bisogna avere occhi abbastanza attenti specialmente in certi quartieri. E per fortuna che è così. Tutt’oggi mi viene l’orrore a vedere i tour che vengono organizzati: la Sarajevo dell’assedio, il war tour, le trincee e i campi minati. Penso che ci voglia una certa discrezione e preparazione nel visitare certi luoghi, perché è facile rimanere impressionati da quello che la guerra ha lasciato, a partire dal numero dei morti: 11.541. Penso che per rispetto di questi luoghi e di questi caduti, non sia giusto andare armati di macchine fotografiche a scattare a raffica delle immagini da mostrare agli amici al proprio ritorno. Buchi nei muri, proiettili, granate, tombe, il tunnel, le trincee, il campo minato.  Non voglio peccare di presunzione, ma per me questi buchi, queste rose di granata, questo tunnel significano qualcosa. Non posso associare ogni singolo proiettile a ogni singolo evento o a ogni singolo morto, ma è quasi come fosse così. Non posso partecipare al dolore individuale di ognuno, ma posso partecipare a quello collettivo. E la parola rispetto, è l’unica che mi viene in mente, quando penso a questa città e all’intero Paese, e a quello che ha vissuto.

Per questo penso sia necessario cercare di vedere Sarajevo con occhi nuovi. La guerra fa parte di Sarajevo e l’ha segnata con cicatrici incancellabili, ma per un turista di oggi – magari un ventenne – penso sia più significativo guardarla, facendo  un salto indietro nel tempo, perché per lui un cimitero, una targa commemorativa o un palazzo bruciato, nella maggioranza dei casi significa qualcosa che probabilmente ha visto solo in un film. E probabilmente non è qualcosa di  impressionante. E’ quasi un souvenir, chissà. Ma facendo questo salto nel tempo si può vedere la Sarajevo che era prima del 1992 e che è oggi. Non significa cancellare un pezzo di storia, ma vederla nel suo complesso. Le terme romane, la parte turca, le fortezze e le porte della città, i palazzi austroungarici, lo stile Secessionista viennese e il moresco, il primo tram in Europa, la parte socialista nella sua bruttezza, le Olimpiadi invernali dell’84. E naturalmente la sinagoga, le moschee, la chiesa ortodossa e quella cattolica nell’arco di poche centinaia di metri, come ancora oggi con orgoglio i sarajevesi mi dicono, quando in taxi mi vogliono parlare della loro bella città. Colto questo, di questa città, allora si può capire cosa abbia significato l’assedio di oltre tre anni. L’urbicidio, termine coniato dal grande architetto e pensatore Bogdan Bogdanovic.

Oggi sorgono centri commerciali, chiudono i musei. Nei negozi della Bascarsija si vendono lampade turche e nei locali si fuma il Narghilè. Nuove mode, al passo coi turisti di oggi, ma per chi cerca dei veri angoli sarajevesi, resistono locali demodè in cui rifugiarsi.

In questi tanti anni, penso di essere stata a Sarajevo almeno 2 volte all’anno, a volte per periodi lunghi, a volte per dei week end folli. 12 ore di macchina per mangiare dei cevapi da Zeljo.
Ho dormito in tante case diverse, ho conosciuto tante persone diverse. E ne incontro ancora oggi, nei posti più impensati.

Per me questa città resta un emblema, un posto dell’anima – oltre che un posto con un’anima.

Ho girato tutta la Bosnia (ed Erzegovina, come mi rimprovera spesso un’amica mostarina) – e non solo – in questi anni, una volta ho provato a fare il conto dei Km percorsi su strade balcaniche e di quante volte ho bucato, o quante volte ho rischiato di andare sotto un camion, o di scivolare sulla neve. Se la circonferenza della terra è di circa 40.000 Km io l’ho girata già almeno 8 volte, facendo la tratta Milano – autostrada della fratellanza e dell’unità.

E nonostante i sentieri sterrati e i tanti piccoli posti visitati, se penso alla Bosnia, penso a lei, Sarajevo.

Perché era una piccola Bosnia, ma anche qualcosa di più. Un luogo di cultura, di tradizioni, di patrimonio che per me, milanese e occidentale, assomiglia di più a quello che è il mio quotidiano. Da un anno vivo a Bihac, nella Krajina occidentale, e per quanto questo posto si dia arie di città, c’è un abisso dal mio mondo. Per questo Sarajevo mi è vicina, perché trovo dei punti di contingenza. Sicuramente non architettonici, ma come flussi, come luoghi di cultura, come atteggiamenti di apertura e freddezza al tempo stesso. A Sarajevo la gente non ti fissa per strada come succede nei piccoli centri, ma se ti fermi a parlare puoi star certo che avrai attorno a te una folla di gente curiosa e pronta ad aiutarti.

Ma la Bosnia Erzegovina è una e unica, Jedna i Jedina, e sì, il 6 aprile del 92 è una delle date, ma non è l’unica da ricordare in questo Paese. Come in ogni tragedia ci sono poi dei simboli che la racchiudono tutta e come in ogni storia ci sono dei ricordi e dei momenti più significativi di altri.

E non è un caso che le prime vittime dell’assedio di Sarajevo siano state uccise durante una manifestazione per la pace, che siano donne, e che non siano di Sarajevo. Già da questo, si capisce tanto.

Parlare oggi di Sarajevo per me significa ricordare un luogo – speciale – che mi ha segnato nell’immaginario prima che nel vissuto reale, ma anche ricordare un intero contesto.

Nella primavera del ’92 le città della Bosnia orientale erano in fiamme e le persone che ho conosciuto nei campi profughi dove sono stata come volontaria venivano da lì, da Doboj, da Bijelina, da Zvornik, da Modrica. Oggi, molte delle campagne attorno a queste città, sono coltivate soltanto a rovine, case bruciate dove nessuno farà mai ritorno.

Vent’anni.

Potrei andare avanti a scrivere molte cose, di questi vent’anni. Forse un giorno raccoglierò i ricordi e i pensieri e cercherò di dargli una forma, ma non oggi, non ancora.

Potrei parlare, di come per me tutto è cominciato, ma non è lo spazio e il luogo. Come tutto sta continuando, ma anche questo non è il momento.

Posso solo dire che non pensavo, vent’anni fa, a 17 anni, di innamorarmi così tanto di una storia, di un luogo, di un popolo. Perché per me esiste un solo popolo, quello bosniaco. E sono anche stanca di tante parole spese, di tante continue polemiche ancora oggi, specialmente tra chi viene da fuori, su questo tema.
Serbo, croato, bosgnacco.
Lasciamo che siano loro a decidere come chiamarsi e scopriremo tante cose nuove sul modo in cui oggi un abitante della Bosnia Erzegovina si definisce.

Non più tardi di dieci giorni fa ho accompagnato mia sorella a fare un reportage per il settimanale  per cui scrive e abbiamo intervistato 11 ragazzi e ragazze di Sarajevo e non solo, nati tutti nel 1992.

La guerra è lontana, per loro. Ed è giusto che sia così. Sono persone che vogliono immaginarsi un futuro diverso da quello dei loro genitori. Vedono la Bosnia come un luogo in cui vivere e lavorare, che ha del potenziale e che sta facendo molti progressi. Vogliono un lavoro adeguato alla loro carriera scolastica e sono stanchi delle solite spintarelle di cui molti usufruiscono. Non guardano il film di Angelina Jolie perchè per loro è troppo brutale.

La guerra è, dalle parole di una loro fuggita in Germania ai tempi dell’assedio, un’immagine dei proiettili traccianti vista in televisione e io che chiedo ai miei genitori di cambiare canale, perché quel film non mi piace.

Ecco, questa semplicità nel ricordare qualcosa di lontano, mi fa dire che oggi, vent’anni dopo, si scontrano fortemente due mondi. Leggendo le parole di molti in questi giorni, di gente di fuori, mi viene da dire: lasciamo in pace questa terra. Perché secondo me, loro non hanno bisogno di noi, ma se giro la frase, faccio una domanda: noi abbiamo bisogno di loro? Rispondo di sì.

Perché percepisco quel bisogno di adrenalina tra le righe dei giornalisti che stanno organizzando una Reunion a base di cavolo e caviale, vestiti in combat gear e/o abito scuro, all’Holiday Inn.

Un bisogno di incontrarsi e rievocare, provare, rivivere quelle sensazioni vissute ai tempi, quando i proiettili ti fischiavano vicini, quando alcuni di loro avevano i capelli ed erano più magri, quando era emozionante fare uno scatto a un moribondo con la macchina fotografica e pagare cifre spropositate per una vodka al mercato nero, da bere nello scantinato dell’albergo. Quando un’elite che poteva pagare esorcizzava la morte che gli alitava vicino, bevendo, scopando, fumando. Era emozionante sentirsi vivi.

Non voglio dire che il ruolo dei reporter di guerra sia un ruolo secondario, se non ci fossero state queste persone, difficilmente il mondo avrebbe avuto l’orrore in copertina, come vent’anni fa succedeva. Abbiamo visto i lager, le stragi, il genocidio in diretta, ai tempi. Ma sappiamo anche dei servizi falsi, delle persone messe in posa, delle notizie vendute, così come oggi sappiamo anche le cose che non ci erano state dette.

E’ che a proposito di tutto questo, oggi, vent’anni dopo, mi interrogo sullo spirito con il quale stiamo per vivere queste giornate.

E’ una giornata del ricordo, è un’occasione per fare analisi, critica, memoria. Ma anche un momento per vedere il presente e il futuro.

La fatica che vedo, nelle parole che sento e che leggo, è quella di riuscire a leggere l’oggi e pensare a un domani, senza continuare a tornare indietro. Ricordare è un diritto civile. Imparare una prerogativa di pochi.

Ho come la sensazione che ci sia quest’entusiasmo quasi morboso, oggi, in tutto questo correre a ricordarci dei vent’anni. Ma i diciannove sono stati meno importanti? E quando saranno 24 non avranno lo stesso peso? I morti muoiono solo nei multipli di dieci?

La Bosnia è stata pacifismo, volontariato, militanza, sangue, martirio, politica, interventismo, aiuti umanitari, bambini, mercato nero. Un frullato di tante diverse cose, in cui noi siamo stati allo stesso tempo attori e spettatori.

Ancora oggi non sappiamo che parte metterci. Attori o spettatori? O è una di quelle tragedie in cui il pubblico è parte fondante dello spettacolo ed è responsabile di come va a finire? Siamo da vent’anni in uno strano esperimento di teatro dell’improvvisazione in cui l’unico prezzo da pagare è la vita di qualcun altro?

Vorrei che seguissimo o quantomeno cogliessimo il dignitoso esempio di chi i vent’anni li ricorda ogni giorno, in silenzio.
Le 11.541 sedie rosse vuote che attraverseranno l’arteria principale di Sarajevo nel giorno del 6 aprile 2012.

Le 11.541 persone che hanno lasciato un posto vuoto e che oggi sono in silenzio, ma presenti come non mai.

delle distrazioni

Pubblicato: ottobre 4, 2011 in Uncategorized
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ok, è tantissimo che non scrivo.

chiedo scusa a chi si aspettava aggiornamenti freschi, ma qui siamo nel paese in cui niente accade, e tutto accade in fretta. prima dell’estate qua a bihac siamo stati indaffarati in ogni modo per capire come portare avanti le attività di progetto, mettendo sul fuoco tante stuzzicanti braciole (o cevapi?) a forma di idea, ma poi il caldo d’agosto, il caldo di settembre, il Bajram (cioè la fine del Ramadan), i volontari di TL (circa 40 persone in casa in due week end), gli ospiti (tra cui tornate e tornate di familiari), la programmazione, la crisi finanziaria che colpisce DRAMMATICAMENTE il lavoro delle ONG (mi chiedo: ma i militari all’estero verranno pagati regolarmente? quasi quasi mi metto in un altro settore) e tante altre cose, mi hanno impedito di mettere insieme i pensieri.

posso dire che il periodo estivo si è suddiviso tra “viaggi e avventure” come per esempio le meritate vacanze (tanto per non star lontana dai Balcani, sono andata a Rovigno/Rovinj) e i rafting organizzati alla garibaldina da Veljko, oppure le gite sul territorio quali per esempio un tre volte in Capitale, ma ancor di più il Bunker titoista a Konjic, tanto agognato da me e dal collega.
un’altra parte invece è stata dedicata ai pensieri, e alle parole.
le tante parole dette, scritte, sentite, le lettere di vario genere ricevute, le mail scambiate in più occasioni con amici balcanofili in italia a proposito per l’appunto di balcani (o meglio, di Jugo).

che dire, le parole più dense sono quelle ovviamente scambiate con la gente di qua.

sarà che stiamo per compiere vent’anni (intesi come: dall’inizio della guerra), fatto sta che in generale c’è un certo fermento nel gruppo dei vari jugofili che conosco, e mi spiace dirlo, da cui mi sento di prendere una certa distanza trovandomi qua.

è un po’ come se volessimo “festeggiare” qualcosa.  che io chiamerei l’inizio – della fine.

ogni giorno che passa qua, parlando con la gente del posto, è ovvio che si senta la guerra e ciò che c’è stato. non è possibile di fare un qualunque discorso in cui in qualche modo ciò che è stato non investa la narrazione.
ma la sensazione forte che ho è che, tra la gente normale, si voglia andare oltre.
invece, poi, mi ritrovo a confrontarmi con i volontari, con gli amici, i parenti, e vedo, percepisco, quanto sentiamo noi italiani questo bisogno fortissimo di vedere, toccare, sentire e /pretenziosamente/ capire la guerra.

la gente del posto ne avrebbe fatto volentieri a meno, sopratutto perchè il risultato ottenuto vent’anni dopo è pari a zero.

zero occupazione
zero democrazia (ma quello nemmeno da noi!)
zero stabilità politica
zero investimenti nell’istruzione (anzi!)
zero possibilità di libero pensiero
zero informazione
zero speranza (anche se si, la speranza è l’ultima a morire)

tutto questo pesa, ovviamente.

pesa nel confronto con chi viene qua da fuori, fresco fresco di università e pensa di sapere. pesa con chi è più vecchietto e si ricorda le immagini e ciò che è successo, e pensa di sapertelo raccontare (grazie!). pesa pesa pesa quando si parla andando in auto con i colleghi, sentirsi raccontare con estrema naturalezza e spontaneità ciò che si è vissuto, e ci si sente da una parte inadeguati, dall’altra parte “inclusi”. come se io potessi effettivamente sapere ciò che significa, pur non essendo stata sotto le bombe.

… ma così è la bosnia di oggi. lenta, gentile, caotica. una piccola vasca di pesci rossi (in omaggio a quelli dei mie nipoti) comprata da papà squalo a figlio piranha, per il compleanno.

in cui noi siamo gli squali, e i piranha tutti i simpatici vicini che costellano questa regione.

per il resto, l’autunno avanza, nonostante un caldo inaspettato. già da domani si aspetta la pioggia e le prime nevi a bassa quota.
i mesi estivi sono stati secchi, la Una è bassa e le cascate sono sgonfie, in attesa speriamo di qualche goccia, anche sulle foglie dei lamponeti.
il canto del muezzin è sempre più presto, a rincorrere questo sole che scende, velocemente, perchè siamo a Est.

nel Far East.

per gli amici jugonostalgici, ecco la famosa base militare D-0. il bunker sotterraneo a Konjic in grado di ospitare un’elite di puri titoisti, in caso di attacco atomico.
nei mesi da maggio a settembre la base ha ospitato la Biennale d’arte, con installazioni di vario genere in situ (evito di commentare l’arte contemporanea). oggi, per chi volesse visitare la base, esiste la possibilità di contattare con LARGO anticipo direttamente il ministero della difesa bosniaco.
per maggiori info: http://www.bijenale.ba/home


The Atomic War Command (Atomska ratna komanda – D-0 ARK) in the Bosnian town of Konjic was one of the largest underground facilities ever built in Socialist Federal Republic of Yugoslavia and one of the most massive construction projects in its history. ARK D-0 occupies 6,500 m2 spread out over 12 interconnected blocks. Dedicated to sheltering the Yugoslav Army headquarters along with 350 selected men and women in the event of nuclear war, this space was built over a period of almost three decades (from 1950s to 1970s) and cost billions of dollars. This complicated labyrinth boasts residential areas, conference rooms, offices, strategic planning rooms, and other work spaces. The existence of this bunker was kept secret until the 1990s, when the ARK was finally revealed.

Balkan….Montagna…

Pubblicato: Maggio 3, 2011 in Uncategorized
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La parola Balkan viene dal turco e significa banalmente Montagna…Eh beh, del resto qua non è che non ce ne siano, siamo la spina dorsale d’Europa e facciamo il bello e il cattivo tempo (le famose perturbazioni dai Balcani no?).

In breve, oggi era una splendida giornata di sole, dopo una settimana di pioggia, i contadini lavorano i campi alacremente perchè è tempo di raccolti e io speravo di aver scampato la mia solita sfiga e la leggenda che mi “circonda” cioè che quando arrivo io in Bosnia ci sono temporali, tempeste e tendenzialmente…. nevicate. E infatti in serata il tempo è virato al nero e ha ricominciato a piovere e far vento forte…

… insomma, è vero che ho trovato neve anche ad aprile da ste parti ed è vero che si teme sempre la gelata finale prima dello scoppio dell’estate (visto che anche qua le mezze stagioni ce le siamo fumate via)… ma da qui a pensare alla katastrofa a maggio insomma ce ne vuole no?

Morale, visto che domenica dobbiamo consegnare le piantine di lamponi ai beneficiari ho dato per scrupolo un occhio alle previsioni del tempo. Al momento i dati arrivano a venerdì, petak. Vi pregherei di guardare la minima di quel giorno.

Balkan, montagna maledetta con la nuvola di Fantozzi che mi perseguita.

Bal e Kan in turco, Miele e Sangue. Odi et Amo.

AndandoStando

Pubblicato: aprile 15, 2011 in Uncategorized
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Sono rientrata ieri in Italia, partendo da Bihac alle 10.20 e arrivando in Piazzale Corvetto alle 18.40, con un paio di soste pipìgasolio e un’attesa di venti minuti a un passaggio a livello inutile di Mestre… Quindi, come dire, si può fare!

Per chi pensa che Bihac Milano siano lontani, non è del tutto vero, si tratta di circa 700 Km di cui 560 circa di autostrada, e poi, hei, grazie a una deviazione temporanea si passa in mezzo al parco di Plitvice!

Per il resto, vorrei fare un paio di riflessioni, così da tranquilizzare chi pensa che io sia in Bosnia solo per divertirmi…

Intanto, il blog lo vivo come un momento di stacco e di racconto in cui il lavoro non è oggetto (sia per vincoli di segretezza – ho sempre amato questa formula nei contratti – sia perchè già lavoro 8 e forse + ore al giorno, mica mi metto a raccontare di  nuovo tutto da capo! per quello ho i miei desk e i miei report ufficiali no?) e poi è una modalità per raggiungere amici, amati, parenti e conoscenti in un colpo solo e di sicuro, se ho da tediare qualcuno con le mie ansie lavorative non lo faccio in questo modo.
Ma sopratutto dato il mio amore per il Balkano, non posso esimermi dal narrare fatti di colore.

Ad ogni modo, oggi poco colore e più pensiero.

Io, il mio desk maschio e la mia presidentessa, siamo rientrati stanchi morti da una “missione impossibile” che ci ha strizzati come limoni, ma grazie alla quale veramente possiamo dire che si sono messe le basi per un anno di lavoro non intenso, intensissimo..

A proposito di missioni, vorrei raccontare un po’ come funzionano, e cosa succede dall’altra parte mentre di qua si vive una vita “pseudo-normale”.
Nella mia esperienza di viaggi nelle diverse parti del mondo, per periodi brevi, la missione ha sempre significato essere proiettati a più o meno Km di distanza, dormendo in case altrui, senza mai disfare la valigia, dormendo nel sacco a pelo, appoggiando il necessaire dove capita nel bagno, mangiando sempre un po’ in giro perchè di fatto o non c’è tempo o non c’è voglia di pensare anche alla cucina, visitando pochissimo il posto nel quale si sta perchè di solito è tutto concentrato. E poi c’è quasi un bisogno di stare insieme tra colleghi/compagni di viaggio, perchè intanto di solito ti sei smazzato un sacco di Km e quindi vivere in un abitacolo per un tot di ore ti “avvicina” all’altro e poi perchè da una parte devi continuamente rifare il punto sugli episodi occorsi e confrontarti sui passi successivi.

E così è stato in questa missione. E’ vero, la differenza è che ho una casa che pian piano sento potrebbe essere una mia casa e un letto con le lenzuola che mi son portata da casa, ma ora sono in Italia, e lunedì riparto, quindi, allora potrò dire sono in Bosnia per lavorare un anno (anche se a ben vedere a Pasqua sono in Italia, e così anche maggio per votare etc).

Per il resto, in breve, il progetto è complesso ma è BELLO, si possono fare un sacco di cose e spero che ce la faremo tutti insieme, quando mi ci addentro maggiormente cercherò di spiegarvi meglio quel che facciamo. Oppure potete venire da soli a vedere, mi piacerebbe che Bihac diventasse un punto di passaggio nelle vostre storie e nei vostri viaggi per poter metter mano e piede in un lamponeto, in un eco-villaggio, in un orto scolastico…

La Bosnia invece povera lei, si trascina come un animale moribondo in una gabbia, la gente non lavora, la politica si mangia tutto e si fa comprare, arrivano gli interessi internazionali che comprano per poco tutto quel di buono c’è…

Qui basterebe soffiare sul fuoco per riaccendere le fiamme mai spente……

Va beh, ci vuole ottimismo e ci vuole la capacità di ridere e divertirsi, ecco cosa, e questo Blog sarà così. Una Balkanoteka, per gli amanti dell’ironia e della Jugo, con quella punta di tristezza e nostalgia necessaria a ricreare l’ambientazione di questo piccolo pezzo di mondo nel cuore d’Europa.

Da Milano, per oggi, è tutto.

Al prossimo post, da Bihac.

PS: Ieri purtroppo niente di speciale, un panino bufalino all’autogrill.

PS2: MC Donald’s sta per entrare in Bosnia…! Spero che le piccole cevabdzinice di Sarajevo resistano alla M dorata, perchè la vera verità è che i cevapi sono più buoni e costano meno. Resistenza Cevapica!

ed ecco i  viaggi della pallina rimbalzina:

*dove A è Milano e B è Bihac

Il primo arrivo non si scorda mai…

Pubblicato: aprile 11, 2011 in Uncategorized
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Eccomi arrivata nella terra dei cevapi per la precisione a Bihac, amena località nella Bosnia Occidentale. Grazie a una deviazione l’ingresso avviene praticamente da dentro il parco di Plitvice, un meraviglioso complesso di laghetti e fiumicelli che si trova in Croazia, al confine con la BiH.
L’arrivo a Bihac è lievemente delosante, o meglio, la casa in cui mi troverò ad abitare è desolante…Una piccola reggia azzurra a piano terra l’ufficio, a metà io e sopra il mio collega. Solo che la casa, abitata per un anno dal mio predecessore, oggi era luccicante (meraviglia delle donnine delle pulize), puzzolente di fumo (il predecessore aveva il vizietto) e vuota….Brrrrrr….Per ora sono riuscita a colonizzare un po’ di spazi ma se voglio sopravvivere alla solitudine Bihacina devo darci dentro un po’. Per ora mi è tornata stra-utile una coperta super colorata di lana fatta a mano (grazie Luigione) e un po’ di chincaglierie e oggettistica di base (tra cui moka, cavatappi e due tazze gialle)…Per il resto….evviva le Grandi Opere! Chiamerò un esercito di nostalgici jugo a fare un’azione collettiva di ripristino. E per oggi, da Bihac, buona prima notte. Ottimismo.