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Da dicembre dell’anno scorso, la Bosnia ha visto un crescente afflusso di persone in fuga da guerra e persecuzioni. I numeri, piccoli all’inizio, non hanno destato particolare allarme. Si trattava in particolare di giovani uomini che avevano trovato ricovero nei parchi e nelle strutture abbandonate intorno a Sarajevo. Decine, una cinquantina, adesso si dice siano quasi duecento. Da un mese circa, i numeri si stanno alzando. Agli uomini si uniscono le famiglie con bambini, i paesi di provenienza stanno mutando e da Sarajevo le persone si spostano verso i confini della Bosnia occidentale, in particolare Bihać e Velika Kladuša. Qui si dice che ci siano quasi 400/500 persone.

Il relativamente facile passaggio lungo le ampie frontiere non controllate tra Bosnia e Croazia, ha dato il via a un movimento sempre più ampio di persone che da due anni si trovano bloccate alle porte d’Europa, lungo la Balkan Route.
La presenza di siriani tra le persone che cercano di uscire dalla Bosnia – per chi conosce la geografia e la demografia dei campi profughi allestiti nei balcani –  fa capire che c’è una rotta meridionale (Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia) mentre la presenza di Afghani e Pakistani indica l’apertura di una rotta nord-orientale (Serbia).

La Polizia croata ha repentinamente messo in campo nuove misure di sicurezza lungo le nuove zone di passaggio, dando il via a respingimenti con uso eccessivo di violenza, come testimoniano le parole dei migranti che incontro a Bihać, che non sono diverse da quelle che mi raccontano i migranti che tentano da anni di attraversare tra le Serbia e la Croazia, al confine settentrionale di Šid.

Persone ferite, cellulari spaccati, passaporti requisiti, soldi rubati. I migranti vengono riportati al confine con le camionette e ributtati in Bosnia, dove, con il permesso temporaneo di richiesta di asilo (durata tre mesi), possono soggiornare regolarmente.

Chi ha i soldi, dorme negli ostelli e negli alberghi e per le categorie vulnerabili (donne con bambini) è l’UNHCR che paga le strutture di accoglienza (ma in particolare a Sarajevo e Bihać cominciano a lamentare il fatto che tra poco inizia la stagione turistica). Chi non ha i soldi dorme nel parchetto di fronte alla biblioteca di Sarajevo o nella zona termale di Ilidža (dove nel frattempo il mondo arabo costruisce resort e alberghi a 8 stelle) o nelle strutture abbandonate distrutte dalla guerra. Esiste un centro per richiedenti asilo a Delijaš, lontano da tutto, tra le montagne poco lontano da Sarajevo. Può ospitare meno di duecento persone, non prende la rete cellulare, non ci sono negozi e tanto meno Internet. I migranti, piuttosto che andare lì, preferiscono dormire sotto le stelle.

A Bihać le persone hanno scelto come loro sede un ex dormitorio per studenti, vicino al campo da calcio e alla facoltà islamica e un ospizio devastato lungo il fiume Una. E’ qui che ogni giorno un team di operatori e volontari della Croce Rossa di Bihać distribuisce pasti caldi, vestiti, scarpe. Anche qui come a Sarajevo all’inizio i profughi stavano nel parco cittadino dove due piccole organizzazioni locali cercavano di aiutare come potevano. Con l’arrivo di numeri diversi e sempre più importanti e con l’attenzione dei media locali in crescita, il sindaco di Bihać ha dato incarico di coordinamento alla Croce Rossa che si sta veramente facendo in quattro per gestire questa nuova emergenza. Parlando con il coordinatore locale, dice che  “si parla di almeno mille persone che arriveranno e resteranno qui prima dell’estate”. E che “attraversare le frontiere con la Croazia sarà sempre più difficile”.

Quello che molti migranti inoltre non sanno è che i confini che vogliono attraversare, lungo la dorsale che da Kladuša scende sotto Bihać, tra i boschi della Petrova Gora, la montagna della Plješevica e le piste abbandonate dell’aeroporto di Željava, sono tra i più minati della regione.

Parlavo di questo con una famiglia ospite al  campo di Bogovadja, dove lavoro in Serbia, che si apprestava ad andare lungo la nuova rotta.

“Hanno aperto un confine, Zilbia!”
“No, i confini sono chiusi, forse alcune persone sono riuscite a passare da una nuova strada”.
“Il nostro smuggler ci ha detto che adesso passeremo dalla Bosnia, basta camion con la Croazia…”
“Se passate dalla Bosnia, vi faranno andare da Bihać, è la cosa più probabile. Ma dovete stare attenti, se vi mandano a piedi nei boschi o in montagna, guardate questo cartello”. Mostro loro le foto che ho scattato alcuni anni fa in tutta quella zona.

La donna si spaventa, conosce il segno col teschio su sfondo rosso. Mi chiede quante ce ne siano. Cerco di tranquillizzarla, ha una bambina piccola piccola, le dico che deve camminare sui sentieri e sdrammatizzo: “se devi fare la pipì, falla sulla strada, non importa se ti vedono”. Ridono. Mi consegnano delle spezie, un quaderno con delle lezioni di inglese e spagnolo, un mini pimer e altre cose personali. Mi dicono: ce le dai quando siamo in Europa.

Loro, come molti altri dei migranti bloccati in Serbia, stanno cercando da anni di attraversare le maledette frontiere. Hanno sentito di qualcuno che ce la fa dalla Bosnia e come molti altri, si stanno rimettendo in cammino. Destinazione finale? Norvegia, Svizzera, forse Germania. Confusi sul sistema d’asilo, sulle leggi e i diritti, sulla geografia. Non hanno niente da perdere, se non la vita. Migrano, come le foglie che si staccano d’autunno e si fanno trasportare dal vento.

Mi arriva un loro messaggio, il 26 aprile: “the smugler cheet to us. There were no car. We stay 2 days in jungel. Last night with a smal boat cross the river and all night walking. There were no guid man. Just show the map to one pasenger and in grups 8 person we came. baby has sick, now we are in tuzla and go sarajevo”.

Stanno aspettando un passaggio giusto, sono in contatto con un trafficante locale “he speak english and arabic”. Ogni giorno cambia piano. “Tomorrow no go, is this holiday in slovenia and croazia,  driver say that is to much police and control”. Mi fa sorridere pensare che né lo smuggler né i migranti sappiano cosa sia il primo maggio “this holiday” che fa aumentare i controlli della polizia…

Sono arrivata a Bihać da pochi giorni e faccio qualche giro alla stazione dei bus, per vedere cosa succede. Vedo dei ragazzi che ho incontrato il giorno prima alla distribuzione dei pasti che salgono sui bus per Velika Kladuša. Io loro li riconosco a distanza, dal modo in cui camminano, dalle loro scarpe, dal taglio di capelli, e dagli zaini che si portano sulle spalle. Uno di loro invece non mi riconosce, e chiede dei soldi al collega di fianco a me, “I need to go to … vka..slladss..”. Migranti alle prese con questa dura lingua slava e l’impossibilità di pronunciare bene i nomi dei paesi.

Al tempo stesso mi rendo conto che sono arrivate delle persone scese dal bus di Sarajevo. Qua dicono che ogni giorno scendono 50/60 persone dalla capitale. Alcune di loro tenteranno di attraversare il confine a Željava o sulla Plješevica, altri più a nord, verso la Petrova Gora. In un piccolo gruppo seduto sul marcapiede vedo una donna col velo con 3 bambini, è la seconda dopo quella che ho visto il giorno prima all’ex studentato. Sono poche, rispetto al numero dei single men che si vedono sinora, ma ieri pomeriggio un messaggio dalla Croce Rossa mi dice che adesso ci sono 160 persone e nuove famiglie sono arrivate, non sanno dove farle dormire.

I volontari sul campo sono affaticati e un po’ disorganizzati, fanno turni in magazzino, per la distribuzione di colazione, pranzo e cena, e non capiscono la mancanza di risposta e l’abbandono da parte del governo e delle grandi organizzazioni internazionali, che possono far solo deteriorare la situazione. Le persone nel Cantone di Una Sana cominciano a raccontare di furti e violenze. Più amici mi raccontano di aver sentito la storia da un amico che ha visto con i suoi occhi come dei migranti chiedessero informazioni e mentre la persona rispondeva venisse rapinata da altri migranti. Questa tecnica pare sia stata messa in atto: alla porta di una casa (e il migrante è entrato dalla finestra) – dal finestrino di un auto (il migrante rubava la borsa dal sedile del passeggero) – per strada (scippo di borsa). In tre posti diversi (Kladuša, Bihać, Otoka). Non credo sia vero, ma il segnale non mi piace per niente. Sono le stesse storie che sentivo quando andavo al confine a Šid. E’ certo vero che il minore controllo delle persone che vivono all’aperto e non nei campi, fa alzare la percezione di insicurezza da parte delle persone del posto. Ed è statisticamente vero che nella popolazione migrante ci siano individui propensi alla violenza o al crimine, così come in un qualunque campione demografico nel mondo. Peccato che la manipolazione di queste persone sia esercizio oramai comune, come tutti sappiamo. Le destre europee e i movimenti xenofobici cavalcano da anni la tigre dello straniero invasore e violento per accaparrare consensi tra la popolazione più ignorante, nascondendo i reali problemi.

Nel frattempo, il governo bosniaco tiene un profilo basso sulla questione, così come l’UNHCR che ha cominciato a indire riunioni settimanali di coordinamento. Al momento sembra che non si vogliano aprire nuove strutture, tant’è che un gruppo di volontari di Sarajevo ha portato e montato le tende davanti alla biblioteca. E’ evidente che non si vuole creare un nuovo imbuto e aumentare il pull-factor per chi dai campi di Grecia e Serbia si vuole spostare. Tra l’altro la Serbia, che da 7.000 profughi dello scorso anno è arrivata ad accoglierne ad oggi meno di 4.000, ha appena ricevuto dall’Unione Europea 10 milioni di euro per gestire i 18 campi governativi per migranti e richiedenti asilo.

Di fatto, per ora, ricade tutto sulle spalle di associazioni, cittadini, volontari piccole organizzazioni. Summer is coming…

“I am ashamed to say that smugler change his speak. Every day he said tomorrow you go but he canceled. To night he swear to God tomorrow he send us”.

Gli rispondo: “smugglers are really bad persons, but tomorrow is a new day, maybe is the good one. Keep safe”.

“Ok, thank you. Inshallah it is”.

 

Numeri.

L’altra sera mi trovavo a Milano e leggevo i numeri delle migrazioni negli ultimi quattro anni. Oltre ai diversi ingressi registrati, c’è un’altra statistica che viene citata poco. Il numero delle persone morte nel tentativo di arrivare da noi, in Europa. Sono stime, perchè di tante persone non conosceremo mai veramente il destino. Chi annega in mare e viene sommerso dai flutti. Chi muore di sete e di caldo nel deserto e sparisce ingoiato dalla sabbia rovente. Chi congela nei fiumi e tra le montagne dei Balcani e viene divorato dagli animali selvatici. Sono in media quattromila all’anno le persone che spariscono così. Seppellite in fosse comuni, lontane dalle proprie famiglie e dalle proprie case. Noi li vediamo come una massa indistinta, fatta di numeri. E non ci sconvolge.

Viviamo tra i morti, nuotiamo tra i cadaveri nel Mediterraneo. E non ci pensiamo, se non quando magari una foto più di un’altra non ci colpisce. Ci fu il caso di Aylan nel 2015, con la sua maglietta rossa, riverso a faccia in giù sulla riva del mare, che ci fece trattenere per un attimo il fiato e che spalancò di colpo le porte del sogno EU a quasi un milione di persone. Dopodichè, quel quasi milione di persone divenne troppo da gestire e firmammo un accordo a Marzo 2016, per chiudere la rotta balcanica, lasciando quasi 80.000 persone ferme tra la Grecia, la Macedonia e la Serbia.

Di loro, dei quasi settemila bloccati in Serbia, la maggioranza Afghani, ci siamo dimenticati in fretta. Sono stati sistemati tutti quanti nei 18 campi profughi aperti dal governo con il finanziamento dell’UE. I siriani sono rimasti in Grecia, prima o poi verranno ricollocati. E quasi quattro milioni sono in Turchia, bloccati dopo l’accordo di cui sopra.

In questi mesi, da Maggio, quando sono arrivata in Serbia, ho conosciuto diverse centinaia di persone. Famiglie sopratutto, ragazzi, uomini. Sono in viaggio da due anni, per lo più. Hanno già conosciuto la durezza del cammino, la paura dell’acqua, il dolore dei colpi dati dal manganello. Uomini, donne, bambini.

Quando ho cominciato a fare volontariato vent’anni fa nei campi profughi in Slovenia, erano sopratutto loro, i bambini, l’energia in più che faceva sembrare meno brutta la vita in quel limbo. Con loro era facile dimenticare dove ti trovavi, la durezza e la noia della vita nel campo, l’incertezza del futuro. Quei pensieri consumavano e consumano sopratutto gli adulti, coloro che sanno quanti soldi hanno già speso e quanto ancora devono indebitarsi per andare avanti nel game. Quanto costerà provare ad attraversare la Croazia o l’Ungheria con i trafficanti.

Negli ultimi mesi molti hanno cominciato a tentare di attraversare i boschi tra la Serbia e la Croazia da soli, con le mappe di Google. L’Ungheria è più difficile da attraversare, lì il confine è più sorvegliato, ci sono fili spinati doppi con lame di rasoio in cima, ci sono i cani, ci sono i sensori di rilevamento termico e le telecamere a infrarossi. E poi ci sono i manganelli, gli ungheresi prima di cacciarti ti pestano, così forse non proverai più la prossima volta. E’ così che rimandano in Serbia brandelli di umanità, feriti nello spirito e nel corpo. La Croazia invece da quest’estate sembrava più porosa, sembrava quasi si riuscisse a passare e poi se proprio non si riusciva ad andare più in là, verso Austria o Ungheria, si poteva chiedere l’asilo. Non sarà Shengen, ma è pur sempre EU.

Da novembre, osserviamo impotenti i tentativi che le persone fanno di andare di là, a Nord dalle parti di Šid. Dal nostro campo decine di persone sono partite e le abbiamo viste ritornare.

Una di queste famiglie non è tornata intera. Avevano lasciato il nostro campo ad Agosto e passato un paio di mesi tra Tutin e Belgrado, fino a quando non hanno provato ad attraversare il confine.

Di Madina ricordo che aveva gli occhi grandi, i capelli neri e folti, uno sguardo vispo e un sorriso furbo. Era piccolina e si confondeva in mezzo ai suoi fratelli e sorelle. Una mattina di Maggio, ero da poco arrivata in Serbia, arrivo al campo e sento i bambini che urlano e corrono verso di me: “cats, cats”! Madina mi prende per mano e mi porta a un grande vaso in cemento, dentro il quale ci sono due gattini neri di meno di un mese, terrorizzati. I bambini sono eccitati e contenti, giocano coi gatti, senza pensare a quanto siano spaventati. Prendo i gatti, li metto in una scatola e li porto in auto. I gatti, avranno molta più fortuna dei profughi bloccati da anni nel limbo migratorio, loro sono a Milano e vivono pasciuti e felici in una bella famiglia, con documento di identità e regolarmente registrati in Comune.

Madina era così, curiosa, sorridente, chiacchierona. Anche se non parlava così bene inglese riusciva a farsi capire e ti saltellava intorno.

Mi immagino come sia stato faticoso per lei, con le sue gambette corte, attraversare la “jungle” tra la Serbia e la Croazia, di notte, tra i fili spinati e le pattuglie della polizia, senza probabilmente capire cosa stava succedendo. Così come non avrà capito cosa è successo, quanto un treno l’ha travolta, uccidendola e lasciando il suo corpo insanguinato al buio, vicino ai binari, mentre gli altri della sua famiglia cercavano di capire al buio dove fosse finita la piccola. L’ha trovata Rashid, suo fratello. Un ragazzo alto e gentile, taciturno, sempre disponibile e attento ai piccoli della famiglia. Mi immagino le urla di Nilab, la sorella maggiore con cui giocavo a pallavolo e con cui parlavamo dei sogni di arrivare in Europa e poter vivere liberamente, in Germania.

La versione ufficiale della polizia croata è che abbiano assistito con i visori infrarossi ai movimenti di un gruppo di persone lungo la ferrovia, dal lato serbo del confine e di come sia passato il treno, a seguito di questo parte del gruppo è andata di corsa verso le pattuglie portando in braccio il corpo di una bambina. La polizia afferma che stavano compiendo i loro compiti routinari di difesa delle frontiere, così come previsto dalle leggi del’UE, applicando i respingimenti forzati.

La versione della famiglia, supportata da organizzazioni umanitarie (tra cui MSF) e gruppi di attivisti e volontari è che la famiglia avesse invece già raggiunto la Croazia e che sia stata respinta verso la Serbia, ricevendo come indicazioni di seguire la ferrovia, senza essere avvisati del potenziale pericolo del passaggio dei treni anche di notte e rifiutando la richiesta della madre stremata che chiedeva solo di poter riposare un po’ con i figli, stanchi, affamati e infreddoliti. Oltre a questo, in nessun modo la famiglia ha avuto alcun aiuto da parte né dei croati, né tantomeno dei serbi, che per alcuni giorni non hanno nemmeno dato il corpo alla famiglia e hanno loro imposto un funerale senza rispettare le usanze musulmane. E’ così che la piccola Madina ora si trova sepolta a pochi chilometri dal luogo in cui è stata uccisa, lontana dalla sua casa, dalla sua famiglia. Era la notte tra il 20 e il 21 Novembre.

Questa notizia all’inizio era passata in silenzio, diffusa tra i social, twittata da alcuni organizzazioni, sino a quando Al Jazeera non l’ha ripresa, seguita dal Guardian e anche dal nostro Corsera. Le parole di Nilab, che Madina non venga dimenticata, sono state ascoltate.

E noi, cosa possiamo fare? Come si può restare indifferenti alla morte di Madina e delle migliaia di innocenti che cercano solamente un futuro migliore, mettendo in gioco tutto ciò che hanno, cioè la loro vita?

Io li vedo questi confini insaguinati e queste vite miserabili. Ero in Croazia il giorno dopo che Madina era morta, lungo la strada che passa dietro il confine. Ho visto le pattuglie, i cani, la caccia all’uomo. Ho visto la polizia croata. E ho visto la polizia ungherese e la caccia all’uomo da quella parte del confine. Ho visto il filo spinato, ho respirato la paura, il buio e il freddo. Ho visto i fuocherelli accesi nella notte da chi parte per il game, le immondizie abbandonate dietro di sé, le scarpe spaiate, le coperte grigie dell’UNHCR. Ho sentito i racconti di bambini di sei-sette anni, di come dopo aver camminato per tanti chilometri non riuscivano più a fare un passo e si addormentavano ogni volta che si dovevano abbassare per sfuggire alle vedette. Mi hanno parlato del freddo, della sete, della fame. Della paura.

E no, bambini, non è questo il game. Non è giusto che il gioco sia questo. Io ho avuto fortuna, sono stata una bambina amata e cresciuta in una grande città, dove andavo a scuola, giocavo coi compagni, ho fatto gli scout, sport e volontariato. Dopo la Slovenia, sono stata in Bosnia e in Kosovo e ora qua in Serbia, e provo a portare sorrisi e giocare, a dimenticare, a ricordare che siete solo bambini e che avete diritto alla felicità e alla spensieratezza, ad andare a scuola, avere vestiti caldi e puliti, pupazzi e giocattoli, dei nonni che vi coccolino e vi vizino, dei genitori che si preoccupino per voi.

E no, non posso dimenticare Madina, non posso dimenticare il suo entusiasmo per i gattini, il modo in cui ballava “tutte le scimmiette in fila per sette”. Non posso dimenticare lei, la sua famiglia e tutte le persone incontrate in questi anni di Balkan route, accampate a Idomeni, a Hotel Hara, a Eko station, al campo profughi di Sounio, a Helliniko, a Horgos e Kelebija, nelle barracks di Belgrado, nell’Afghan park e il modo in cui nonostante tutto, i bambini riescano a giocare. Non posso.

E se vi chiedete come si fa, non lo so nemmeno io come si fa, so solo che quando vedo mia nipote Anna che ha 4 anni e dei ricci bellissimi e le ho appena regalato un pigiama con Elsa di Frozen, penso solo che lei è fortunata e le auguro che la vita non le dia mai quello che sta dando a queste migliaia di Madina in giro per il mondo alla ricerca di fortuna.

Tra poco è Natale, spenderemo un sacco di soldi per cibo, regali, luminarie e decorazioni.
Qualcosa lo potete fare anche voi.  Ricordatevi di Madina e di quelli che stanno ancora facendo il game.

Potete fare un regalo ai bambini di Bogovadja. Non sono giocattoli, non sono dolci e caramelle, sono scarpe e vestiti per l’inverno, dignitosi e caldi, che forse gli serviranno quando dovranno attraversare i boschi al confine.
http://www.caritasambrosiana.it/emergenze-caritas/emergenze-in-corso/emergenza-freddo-bogavadja

Ciao, Madina.

Madina

https://www.theguardian.com/world/2017/dec/08/they-treated-her-like-a-dog-tragedy-of-the-six-year-old-killed-at-croatian-border

http://www.aljazeera.com/news/2017/12/tragic-death-year-refugee-serbia-171206120406637.html

http://www.corriere.it/esteri/17_dicembre_08/bambina-respinta-croazia-travolta-treno-confine-5a17075e-dbfa-11e7-96bf-2722fd237ccc.shtml

Quante facce non saprei riconoscere tra la folla, tra le persone che sono passate in questi mesi nel piccolo campo profughi di Bogovadja, dimenticato da qualche parte nella Serbia occidentale? Con quanto persone non mi sono nemmeno scambiata un saluto, con quanti mi sono invece stretta la mano dicendo good morning, selam?
Quanti sono quelli che sono stati qui, per pochi giorni, per poi tentare il “game”, l’attraversamento illegale dei confini? Chi di loro è riuscito a evitare i manganelli, i cani, i fili spinati ungheresi? Chi ha raggiunto la sua famiglia nella tanto agognata Germania, chi invece ha già cercato per la terza, quarta, quinta volta di attraversare i boschi ed è stato catturato e rimandato indietro?

La vita nel campo profughi è un’infinita ripetizione di giornate tutte identiche, all’interno della quale ognuno di noi recita una sua parte, cercando di tenere sotto controllo stress, tensione, follia che inevitabilmente ti bussano alla porta nel momento in cui siamo tutti prigionieri dello stesso spettacolo, un truman show senza soluzione di continuità. Operatori delle organizzazioni, responsabili del campo, migranti, cuochi, profughi, donne delle pulizie, ci troviamo insieme, tutti i giorni, inventandoci ogni giorno storie nuove, racconti nuovi, scherzi nuovi. Se non sei dotato di fantasia, questo lavoro, o questa vita, non la puoi proprio fare.

Quando non sono al campo profughi, mi mancano le persone del campo e i rumori che sono diventati il mio sottofondo quotidiano. Li sogno praticamente tutte le notti, quando non crollo per la stanchezza. A volte sono persone reali che ho conosciuto, a volte sono folle indistinte, colonne di persone in movimento.
Quando sono al campo, sono talmente stanca di tutto questo che mi irritano le continue richieste, i piccoli furtarelli di materiale dei bambini e delle loro madri, i litigi e le gelosie che serpeggiano tra i corridoi.
Così come loro, anch’io mi trascino in giornate apatiche in cui sento che non ho le energie mentali e fisiche per fare le attività in maniera continuativa. Iniziamo a giocare a pallavolo o calcio, ma ci annoiamo in fretta. Cominciamo un laboratorio e speriamo che arrivi presto l’ora della fine. Vaghiamo tra il cortile, il campo giochi, le stanze del campo. E così passano i giorni, uguali a sé stessi, dopodichè si raccolgono tutte le energie rimaste, cerco di ricordarmi perchè sono qui, quale sia la scelta (o l’incoscienza che mi ha spinta qui?) che ho fatto e rilancio con maggiore energie, sino al prossimo momento di crollo.
Mi appiglio al significato che ho trovato, in una semplice parola, della quale ho capito il peso solo adesso, quaggiù.
Condivisione.
Non l’avevo mai veramente sperimentata in maniera così totalizzante e intensa, non so nemmeno quanto sia sano.
E non lo sto facendo per sentirmi buona, giusta. Non mi sento necessaria, non mi sento speciale, non sto facendo niente che non sia semplicemente stare con delle persone in cammino e fare un pezzo di strada con loro. E’ come quando si va in montagna, nonostante la fatica della salita, ci si saluta sempre, tra estranei. Condividiamo la strada, conosciamo la fatica del sentiero, aspiriamo alla vetta, chi in condizioni fisiche migliori, chi peggiori, rotoliamo sulle stesse pietre, ostinati a sudare e salire.
Io sono a loro straniera, loro sono a me stranieri. Ma nonostante questo ci conosciamo e ci riconosciamo. Abbiamo scalato la montagna insieme.

A Malpensa alcuni mesi fa stavo per tornare a Belgrado, mi sento toccare su una spalla. Un uomo mi saluta in un cattivo inglese. Non lo riconosco, non lo capisco. Mi dice: Caritas, Bogovadja! E io, pur senza riconoscerlo e senza avergli mai detto niente se non “Good morning” mi sono ritrovata sua amica a così tanti chilometri dalla Serbia, dall’Afghanistan.

In questo strano limbo, collezioniamo storie.
E mi fa schifo leggere i giornali e le notizie in Italia, mi fa schifo leggere la violenza che emana dal web e dai social media, mi fa schifo pensare all’egoismo che domina le nostre società. Mi fa schifo sapere che non riusciamo mai a pensare all’altro come se fossimo noi stessi. E non ci rendiamo conto che siamo stati fottutamente fortunati a nascere in un certo posto e in un certo momento della storia. Questa, è l’unica differenza tra Noi e Loro. Non è il colore della pelle, la lingua che parliamo, il cibo che mangiamo, il Dio che preghiamo a renderci diversi.
Ed è questo, un altro pensiero che mi spinge ogni maledetta mattina ad alzarmi, a prendere il furgone per andare al campo: se io fossi nei loro panni, come sarei, come starei. Che tipo di profuga sarei all’interno della galassia dei campi? Non lo so con sicurezza se saprei trovare la forza, le competenze, gli strumenti per vivere questa esistenza così terribile, ma penso che mi piacerebbe avere a che fare con persone che fanno di tutto per cercare di rendere meno orribili le mie giornate monotone e alienanti, che mi piacerebbe che i volontari venissero a far giocare i miei bambini e mi aiutassero non tanto dandomi delle scarpe o dei vestiti, di cui comunque avrei bisogno, ma donandomi l’umanità necessaria a sopravvivere in questa strana catastrofe.  Essere riconosciuti.
E così, ci sono, ci siamo, non siete soli.
Mi ricordo oramai più di vent’anni fa durante la guerra in ex Jugoslavia, questa “sindrome dell’abbandono” che colpiva le persone di quei paesi, condannate a morire in mondovisione. Avevo diciott’anni e andavo in Slovenia nei campi profughi. Oggi, sono tornata nei campi profughi e ritrovo la stessa cosa di allora.
Gli stessi strani equilibri tra le stanze del campo, tra la popolazione di questo micro-cosmo. E’ un ambiente nel quale mi sono ritrovata immediatamente, non a mio agio, ma con la consapevolezza e la capacità di riconoscere certi tipi di bisogni e certe dinamiche che si creano nella cattività e nella coesistenza forzata. Alla fine nei nostri condomini possiamo anche evitare i vicini che ci stanno sulle palle, siamo fortunati, usciamo di casa, andiamo a scuola, andiamo al lavoro, vediamo gli amici, possiamo andare in vacanza.
Qui, così, non hai scelta.
E che differenza ci sia tra un campo profughi, una prigione o un istituto psichiatrico faccio fatica a capirlo. Dipendere dagli altri per tutto: cibo, vestiti, attività. Deprivazione della libertà. E’ già tanto che le persone non abbiano cominciato ad ammazzarsi. E’ assolutamente importante che esista uno spirito di comunità che tiene insieme i pezzi quando gli inevitabili incidenti accadono.
L’unità tra le persone che alcuni stoici tra i migranti stanno mantenendo all’interno di queste quattro pareti sta salvando questo luogo (questi luoghi) da un’esplosione che è sempre lì, prossima, palpabile.

Lo so.
Questo blog probabilmente ha sempre avuto un’altro taglio. L’ho sempre usato come luogo in cui raccontare la storia attraverso le storie, analizzando, citando fonti, indignandomi anche e polemizzando, ma pur comunque mantenendo una distanza da me stessa.
Ma un blog è anche un diario. Io tra me e me lo definisco il pensatoio di Albus Silente. E sono mesi. Mesi che non scrivo, non ne ho avuto la forza, non è tanto una questione di tempo (il non avere tempo è un alibi), ma una questione che se mi metto a raccontare tutte le storie del campo, devo ri-raccontarmele e invece è più che sufficiente una volta.
Stupri, morte, bastonate, disagio mentale, sofferenza fisica, solitudine, paura, angoscia, ansia, tristezza, rabbia… Ecco cosa sono le storie che raccogliamo ogni giorno, nella normalità delle chiacchiere che facciamo.
Ma forse la vera storia non è quella del Male che emerge. La storia qui, tra questi stati d’animo così cupi, è la capacità del’essere umano di andare avanti lo stesso, cercando la Speranza.
Siamo maledettamente capaci di cadere e rialzarci.

H., donna afghana con due figlie piccole. L’ho ospitata a casa mia per un week end fuori dal campo. Ha voluto pulire casa mia (!) e ha preso in mano l’aspirapolvere. A un certo punto si è fermata e ha detto: erano tre anni che non usavo un aspirapolvere.
A. ragazzo iraniano di 15 anni. L’ho ospitato a casa mia, sempre per un week end fuori dal campo. Di notte piange e urla e cerca sua madre.
F. ragazza afghana di 19 anni con due figlie, comprata a 14 anni da un uomo che ha già moglie e nove figli. Pensando che il mio numero fosse quello del ragazzo di cui si è innamorata mi cantava via whatsapp le canzoni in lingua pashtu.
F. ragazzo iraniano, 21 anni. Non capiva perchè i poliziotti bulgari di sera entrassero nella sua camera per picchiarlo, nonostante lui sia cristiano.


Saluti da Bogovadja.

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