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40 anni

Pubblicato: marzo 24, 2016 in Uncategorized
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Resterà una data storica, quella di oggi, per la giustizia internazionale, per la Bosnia Erzegovina, per noi tutti?

Il Tribunale Penale internazionale per i crimini in ex Jugoslavia si è pronunciato nel pomeriggio contro uno dei principali responsabili della guerra del 92-95 in Bosnia, l’allora Presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadzic.

Personaggio folkloristico, dal ciuffo ribelle, l’occhio spiritato, quando è stato catturato nel Luglio 2008 Il dottor Dragan Dabicdopo 12 anni di clandestinità e fughe, lo hanno ritrovato travestito da guru, una specie di santone barbuto e dai capelli lunghissimi, che si professava esperto di cure naturali e rimedi per la sterilità.

Nel suo cv: psichiatra, poeta, politico… e pianificatore di sterminio di massa.

Infatti già nell’ottobre 1991, quando ancora Vukovar in Croazia non era stata del tutto rasa al suolo e quando ancora le fosse comuni in Europa erano un ricordo del ’45, pronunciava in parlamento a Sarajevo la seguente frase: Ovo nije dobro što vi radite. Ovo je put na koji vi želite da izvedete Bosnu i Hercegovinu ista ona autostrada pakla i stradanja kojom su pošle Slovenija i Hrvatska. Nemojte da mislite da nećete odvesti Bosnu i Hercegovinu u pakao a muslimanski narod možda u nestanak jer muslimanski narod ne može da se odbrani ako bude rat ovde.

Cioè: “Non è una cosa buona quella che state facendo (rivolto ai bosgnacchi, che stavano pensando al referendum per l’indipendenza dalla Jugoslavia, messo in atto nel 1992). La strada sulla quale volete condurre la BiH è la stessa autostrada d’inferno e violenza in cui sono finite Slovenia e Croazia. Non pensate che non condurrete la BiH all’inferno e il popolo musulmano all’estinzione, perchè il popolo musulmano non potrà difendersi, se qui scoppierà la guerra”.

Un pacifista nell’animo, sin dall’inizio. Del resto  frequentare gentaglia in galera negli anni ’80 per piccole truffe, avrà avuto qualche influenza. I suoi intrallazzi con gli amici della Energoinvest e la casetta di montagna costruita a Pale con la sottrazione di fondi per progetti agricoli, gli avevano permesso in quella fase di transizione conseguente la morte di Tito (e pianificazione della dissoluzione della Jugo) di entrare nell’entourage dei serbi di Belgrado. In particolare il gran burattinaio Dobrica Cosic, uno dei maestri della propaganda filo-serba, lo sceglie come uomo chiave del nuovo Partito Democratico Serbo fondato a Sarajevo nel 1989.

Dalla primavera del 1992, con l’indipendenza della BiH, Karadzic insieme al suo capo Slobodan Milosevic (da Belgrado) e il suo macellaio Ratko Mladic, diventano nomi ricorrenti nei fatti di cronaca. Villaggi bruciati, stupri di guerra, campi di concentramento, riportano tutti le loro firme, fino all’epilogo dell’orrore che si raggiunge nel 1995, a Luglio, nella piccola cittadina di Srebrenica, Bosnia orientale. Quasi 8.000 ragazzi, uomini, anziani deportati, uccisi e seppelliti in fosse comuni nel giro di tre giorni.
Il genocidio avviene su ordine della direzione della Repubblica Serba di Bosnia. Mladic e i suoi fanatici assassini sono gli l’esecutori. Il mandante è lo psichiatra poeta.

Karadzic e Mladic

Finita la guerra, da fine conoscitore della mente umana il nostro capisce che non tutti gli vogliono così tanto bene, e si defila quatto quatto…puff.
Il Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia lo accusa di crimini di guerra, di aver tenuto le forze internazionali delle UN in ostaggio facendo far loro da scudi umani, di aver organizzato e ordinato il genocidio di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo. L’Interpol emette dal 1996 un mandato di ricerca per crimini contro l’umanità, genocidio, gravi violazioni delle convenzioni di Ginevra commessi contro non-serbi nel suo ruolo di Comandante Supremo delle forze armate serbo-bosniache e Presidente del Consiglio Nazionale di Sicurezza della Repubblica Srpska.

Per dodici anni – ad ogni modo – di Karadzic si continua a parlare, ogni tanto viene anche avvistato in giro nonostante la latitanza (anche allo stadio in Italia, o a Venezia, così bella), si cerca anche (forse) di catturarlo – ma ahimè la Nato così come Napoleone, non riesce ad affrontare la neve e l’inverno balcanico, quindi il nostro riesce sempre a farla franca. La sua famiglia gli chiede di arrendersi, ma lui niente, testone come solo un montenegrino sa essere, preferisce studiare la modalità di velocizzare gli spermatozoi piuttosto che finire al gabbio.

Le sue protezioni politiche però a un certo punto scemano e il nostro – volente o nolente – viene arrestato a Belgrado in una casa di periferia. I vicini del Dottor Dabic dicono tutti: era una persona così educata, salutava sempre.

Viene trasferito all’Aja e comincia il processo. 11 i capi d’accusa su cui sentenziare.

Alle 16 e 20 di oggi, il giudice O-Gon Kwon (che ha letto per due ore e venti di seguito le accuse, bevendo ettolitri di thè) chiede all’imputato presente in aula che si alzi per snocciolargli il rosario.

Accusa 1: Genocidio. In particolare si fa riferimento al progetto di pulizia etnica di 7 municipalità: Bratunac, Foča, Ključ, Kotor Varoš, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik. Ritenuto non processabile su questo capo nel 2012 per mancanza di prove, l’accusa viene reintrodotta in Appello nel Luglio 2013, proprio l’11 del mese. Oggi, 24 marzo 2016 viene riconfermata l’insufficienza di prove e il collegio dei giudici si “limita” a riconoscere i reati di crimini contro l’umanità, omicidio e persecuzione.

Accusa 2: Genocidio, legato all’eccidio di Srebrenica. Sentenza: Colpevole

Accusa 3: Persecuzione per motivi razziali, religiosi ed etnici (crimine contro l’umanità). Colpevole

Accusa 4: Sterminio (crimine contro l’umanità). Colpevole

Accusa 5: Omicidio (crimine contro l’umanità). Colpevole

Accusa 6: Omicidio (violazione delle leggi e costumi di guerra). Colpevole

Accusa 7: Deportazione (crimine contro l’umanità). Colpevole

Accusa 8: Atti inumani e trasferimento forzato (crimine contro l’umanità). Colpevole

Accusa 9: Atti di violenza con lo scopo di diffondere il terrore nei confronti della popolazione civile, violazione delle leggi e dei costumi di guerra. Colpevole

Accusa 10: Attacco illegittimo verso i civili, violazione delle leggi e dei costumi di guerra. Colpevole

Accusa 11: Presa di ostaggi, violazione delle leggi e dei costumi di guerra. Colpevole

Qui dentro, in questi 11 capi d’accusa, ci sono le 11.541 vittime di Sarajevo e i suoi assediati, i 284 caschi blu dell’Onu presi come ostaggi, le 8.372 vittime di Srebrenica, le almeno 10.000 donne stuprate che ancora stanno in silenzio, le case incendiate, le persone arse vive, le fosse comuni, le torture, le deportazioni, i luoghi religiosi e culturali rasi al suolo, le umiliazioni, i furti, le dita tagliate, le teste mozzate, i corpi smembrati.

La pena da scontare, in termini di anni di detenzione, è un numero rotondo, poco impressionante. Mr Karadzic lei ha vinto una gita premio in una galera nemmeno troppo terribile per una durata di 40 anni per aver solamente cercato di sterminare un popolo, ma visto che 8 li ha già fatti, gliene mancano pochi, si consoli. Poi tra buona condotta, età e motivi di salute vedrà che tornerà presto a godersi la buona aria di Pale e delle montagne della Jahorina.

Il processo, iniziato il 26 ottobre 2009 è durato 498 giorni, durante i quali sono state esibiti 11,500 tra reperti e prove d’accusa. 586 testimoni, di cui  337 sono stati chiamati dalla Procura, 248 dalla difesa e 1 dalla Camera di primo grado.

E? E niente, finisce qui, anzi no, perchè ovviamente ci sarà l’appello.

Io resto con il solito sapore amaro in bocca, quando si ha a che fare coi fatti di giustizia. La stessa sensazione, mista a incazzatura e delusione che provano i miei amici in giro per i Balcani. Un po’ di incredulità, un po’ di indignazione, un po’ di sensazione di alleggerimento, in ogni caso,  perchè al di là di tutto, (anche) questo processo è finito e un criminale è stato riconosciuto colpevole.

Sul conteggio degli anni vengono fatti calcoli che esulano dalla mia capacità di comprensione, non sono un giudice, e mi faccio forza sperando che si vada avanti con il processo di giustizia, l’unico vero modo per avere riconciliazione così necessaria ancora, in questi luoghi.

Del resto, ma come lo misuri un Genocidio? Cioè, cosa c’è di più terribile e quale pena va comminata a uno sterminatore di massa? Ergastolo? Condanna a morte? Gli han dato di galera più degli anni che in linea teorica potrebbe vivere. E’ una pena sufficiente? E’ una pena giusta? Di certo vi è che è una pena. In tutti i sensi. Per lui a cui è stata comminata, e per chi l’ha vissuta, la pena, l’ansia, la sofferenza in tutti questi anni.

Può essere una ripartenza? Questa è la domanda. Questa la speranza.

161 processi (149 quelli conclusi) sono un niente, comparati all’enormità dei fatti criminosi accaduti alle porte di casa nostra, ed è evidente che il mondo ancora una volta ha fallito o quantomeno ha perso un’occasione.

Speriamo non ce ne debbano essere altre, nella storia dell’umanità.

Qui la pagina del Tribunale penale: http://www.icty.org/en/press/tribunal-convicts-radovan-karadzic-for-crimes-in-bosnia-and-herzegovina

 

 

La quiete prima della tempesta

Pubblicato: luglio 8, 2012 in Uncategorized
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Alto e basso. Prospettive verticali e orizzontali.

Mi trovavo ieri e oggi a Srebrenica, in visita a una persona molto cara.

E ho colto l’occasione per far visitare il memoriale di Potočari e il capannone a una mia collega che è venuta con me da Bihać, per la prima volta nella Bosnia Orientale. Affascinata da Tuzla e dal fiume Drina, è ammutolita mano a mano che da Bratunac ci inoltravamo verso Srebrenica.

Fa caldo, caldissimo, in Bosnia in questi giorni, e Srebrenica non fa eccezione.

Entriamo nel capannone della fabbrica di batterie verso le 10 di mattina e già il sole è a picco, e le ombre sono lunghe.

Mentre giro nella fabbrica, si disegnano sull’asfalto queste strisce proiettate dal sole, che riprendono in un gioco di simmetrie lo spettrale disegno dell’architettura industriale.

In questo posto, un amante dell’archeologia industriale, potrebbe passare le ore, tra macchinari abbandonati, vecchi archivi. Ma non è l’unica traccia umana tra queste pareti bucherellate dai proiettili e dalla ruggine che ha lasciato un segno. Ci sono i graffiti degli olandesi, poi quelli dei serbi e infine le scritte di chi in questi anni è passato da queste parti.

Nero e bianco si mescolano sul pavimento, le ombre e la luce.

Nero e bianco delle teche in cui, nella stanza del ricordo, sono raccolti alcuni oggetti personali delle vittime sparite nelle fosse comuni. Anziani, giovani, ragazzi. Tabacchiere, quaderni scolastici, amuleti e braccialetti. Una fede nuziale. La foto e la storia del proprietario.

Tutto tace.

Di fronte a noi un capannone vuoto. Ci sono parcheggiate due auto.

Tra due giorni questo capannone oggi silenzioso e fresco sarà riempito con 520 tabut, piccole casse in legno che raccolgono i resti di chi troverà forse riposo dopo tutti questi anni, alcune delle oltre 8.000 vittime uccise nel luglio del 1995, non lontano da questo stesso capannone. La zona protetta dalle Nazioni Unite.
La trovata del Generale Morillon, che diede Srebrenica in mano a uno sparuto esercito di giovani uomini, prima canadesi e poi olandesi. Che non avranno (e adesso? che cosa sanno oggi, chi sono questi uomini, questi soldati di pace?) capito nemmeno dov’erano. Viaggiatori per professione, una volta nel freddo balcanico, una volta nel deserto a difendere… ideali? Stipendi? Per loro veramente ciò che è stato si riduce ad aver capito che le donne bosniache hanno i baffi, sono senza denti, e puzzano come la merda (così scrisse uno di loro, in uno di quei graffiti nel capannone, poi ripreso da una giovane artista sarajevese in un celebre poster)? Per loro il grado di insofferenza verso quella missione era arrivato al punto tale da vedere con sollievo che tutto stava finendo quell’11 luglio? Che si trattava solo di aspettare che le donne salissero sugli autobus e gli uomini…. Dove andavano quegli uomini? Quei ragazzi, quei vecchi? Perché erano separati dalle donne? Beh, in guerra, si sa. Ci sono i prigionieri, così avranno voluto credere quei biondi caschi blu. Per poi finalmente vedere anche loro la fine di questo assedio nel quale loro stessi erano finiti, senza più cibo e con una gran voglia di tornare a casa. Un debriefing a Zagreb e poi via nella loro terra dalle mogli e dalle fidanzate senza baffi, con i denti e un buon profumo di pulito.
Avranno fatto tacere le loro coscienze, ascoltando le rassicurazioni del loro comandante, Karremans, che alla prese con Mladić nel pieno del suo delirio di onnipotenza (ecco la vendetta, ecco che dopo il 1389 finalmente viene sconfitto l’esercito turco, ecco che oggi viene regalata Srebrenica al popolo serbo in questo giorno di festa) non seppe fermare il massacro annunciato, ma ripetè come un disco rotto a sé e ai suoi uomini che gli uomini venivano portati via per essere interrogati.

Prospettive verticali e orizzontali. Nelle ombre del capannone, nelle geometrie precise dell’architettura, nelle linee di comando degli eserciti, le gerarchie ordinate e rassicuranti dei militari. Eseguivo gli ordini. Echi di frasi già sentite.
Prospettive come colonne, linee precise tracciate. Linee come quelle del fronte. Linee formate dagli uomini in marcia tra i boschi, centro chilometri sotto gli spari, nella speranza di raggiungere i territori liberi, senza cibo né acqua.
Una colonna di uomini tra i boschi che si è riformata puntuale anche quest’anno. Settemila presenze oggi in partenza da Nezuk per rifare la strada al contrario. La marcia della pace. La marcia della vita. Per ricordare e portare omaggio. Gente comune da tutta la Bosnia si unisce in questa marcia tra i boschi insieme a chi quella marcia nel 1995 la fece al contrario. Con il terrore di essere preso e ucciso.
Incrociamo la marcia ieri, vicino a Tuzla. Gli autobus che girano dopo Kalesija e vanno al punto di partenza a Nezuk. Oggi quando torniamo indietro superiamo i poliziotti che fermano le auto dietro di noi, da un sentiero spuntano le prime bandiere, il percorso  attraversa le strade asfaltate per rituffarsi nei boschi.

E poi, Potočari e l’area delle sepolture. Di nuovo, queste prospettive verticali. Le lapidi degli šehidi, i martiri, uno di fianco all’altro nella zona di sepoltura, proprio di fronte al capannone di Potočari. Bianche lapidi come quelle dei soldati americani (non a caso il memoriale è stato fortemente voluto da Bill Clinton) che si spingono verso il cielo. E prospettive verticali al contrario, verso il basso.

Fosse.

Tante fosse.

Fresche.

Vuote.

Si scava da giorni per creare 520 nuove fosse dove deporre ciò che resta di questi uomini, bambini, massacrati, seppelliti, disseppelliti, riseppelliti, così tante volte. Fosse primarie, secondarie, terziarie. Qui un braccio, lì il teschio, forse un piede.

Ecco cosa si seppellisce oggi dopo 17 anni. Ossa. Brandelli. Riconosciuti dal Dna, dai pochi rimasugli di vestiti o altri oggetti ritrovati. Ecco il padre che si riunisce al figlio dopo anni nella terra o nei sacchi nel centro di riconoscimento di Tuzla.

Orizzontale, come le linee che fanno i nomi di 8372 persone scomparse incise sulle pietre.
Orizzontale, come la posizione di un corpo in una bara.
Come un piccone appoggiato sulla terra quando si smette di lavorare.

Qui dove oggi c’è silenzio, tra tre giorni ci saranno pianti, lacrime, urla, preghiere. Un mare di persone si unirà ai morti che da qualche anno giacciono nella terra, su cui ora crescono i fiori, e accompagneranno le nuove sepolture.

La politica vorra là sua fetta – prospettiva verticale.

La gente piangerà i suoi morti – prospettiva orizzontale.

La quiete, oggi, prima della tempesta.

E di colpo, il tuono.

E poi, di nuovo il silenzio.

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