Posts contrassegnato dai tag ‘Sarajevo’

Intanto che la terra dei cevapi dormicchia sotto il primo sole primaverile, portiamo un po’ di Balcani a Milano in fiera, all’ormai rodatissimo evento di Fà La Cosa Giusta, dal 28 al 30 marzo.

Venerdì sera allo stand delle Acli, con gli amici di http://www.ipsiamilano.org facciamo un aperitivo balcanico, parliamo in radio delle grandi mete da non perdere (Sarajevo e Belgrado, presentando la bella guida su Sarajevo co-scritta da me medesima http://edizioni.oltre.it/comersus/store/comersus_viewItem.asp?idProduct=3086) e vi raccontiamo il progetto cercavamo la pace (http://www.cercavamolapace.org/).

A proposito di  cercavamo la pace… se non avete ancora compilato il questionario online e caricato un po’ di foto e reperti degli anni ’90…cosa state aspettando?

Ci vediamo in fiera!

ImmagineImmagine

Pochi giorni fa ci trovavamo a Sarajevo, insieme a 40 dei contadini coinvolti nel progetto lamponi.

La partenza alla 4 di mattina su un torpedone scassato non ha spaventato i partecipanti, che anzi, erano ben felici di fare una di quelle belle gite come ai vecchi tempi.

L’atmosfera era veramente jugo, gente da diversi comuni, cevapi e cocacola distribuiti alle 5 di mattina, la musica turbo folk su questo bus color arancione di altri tempi, l’aria condizionata che andava al contrario e quindi la mattina con fuori 5 gradi eravamo tutti surgelati perché invece del riscaldamento andava il condizionatore e viceversa alle 4 con fuori 30 gradi noi avevamo il riscaldamento acceso. In tutto ciò l’autista era tornato da Sarajevo il giorno prima (la notte stessa a mezzanotte!) aveva dormito due ore, bevuto non si sa quante red bull e rimesso in moto….Ottime premesse insomma! Sette ore ad andare e sette a tornare nel casino più totale!

Molti dei partecipanti non andavano a Sarajevo da anni e alcuni non ci erano proprio mai stati. E’ vero, il programma è stato da folli, del tipo sveglia all’alba come già detto, arrivo a Ilidza, visita dei frutteti sperimentali per un paio d’ore e poi via, fuga in Bascarsija per 45 minuti, altra tappa su strade del piffero a vedere mirtilli e indietro verso Bihac…… Personalmente ero in coma, ma la gente era tutta contenta di questa opportunità, che è stata effettivamente l’occasione per molti di loro di vedere il loro stesso Paese. Tra un colpo di sonno e l’altro sentivo commenti stupiti e orgogliosi, passando vicino al lago Pliva, del tipo: ma anche questo è il nostro Stato? Oppure: ma quanto verde che abbiamo!

Lo spunto di riflessione più ampio mi è stato dato dal momento di formazione che abbiamo avuto con un professore di Agraria di Sarajevo, che spiegava ai produttori gli standard richiesti in Europa per la frutta e la verdura.

E mostrava queste foto di mele tutte uguali, tutte lucide, tutte tonde….e al confronto le meline tocche, bacate, col verme dei contadini bosniaci.

E diceva: mettetegli su un po’ di trucco, e ve le pagano 3,5€.

Da cittadina dell’Unione Europea, mi sono veramente intristita.

Era una sensazione strana, come se mi sentissi quasi in imbarazzo, un po’ snob ecco. Una di quelle scene da film in cui si vede il povero contadino vestito a suo dire in maniera elegante, presentarsi alla festa della superstronza ricca che non si fa mancare l’occasione di prendere in giro il morto di fame anche un po’ ignorante.

Le nostre mele snob, lucide, tonde e grandi (dal sapore di niente per lo più) additavano le meline bacate bosniache e commentavano a bassa voce tra loro quanto erano bruttine, misere  e poverelle. E le meline bacate nella loro onesta semplicità si sentivano fuori luogo, senza la forza di reagire ai commenti delle supermele palestrate e col lifting.

Mi sono intristita anche perché so che le meline che mangio qua sono più buone di quelle che mangio in Italia. Perché so che qua i pomodori sanno di pomodoro anche se sono brutti. Che sì l’insalata ne butti la metà e che ci sono anche dentro le lumache, ma viene dal campo appena fuori Bihac.

E mi sono chiesta che Europa sia la nostra, che non apprezza le differenze, che non vuole le mele diverse: quella storta, quella grande, quella piccola, quella screziata, quella un po’ tocca, ma che le vuole tutte uguali ‘ste cazzo di mele e che le omologa e che ha un calibro e che guarda il colore, la forma, ma non il sapore e la sostanza.

Che Europa è quella che tiene fuori le meline un po’ stortignaccole, ma che ha dentro di sé le mele marce?

Che Europa è quella che vent’anni fa non ha saputo proteggere la bellezza delle differenze, che non ha saputo cogliere il valore della coesistenza e che ha permesso che la polveriera esplodesse nel suo cuore, cioè la Bosnia Erzegovina multiculturale, quel triangolo spigoloso, pieno di meline storte, ma così saporite?

Dove va questa Europa omologata, tutta lucida e truccata?

E mi vengono in mente le parole della canzone di Paolini e dei Mercanti di liquore riferite alla nostra Italia….

Avrei voluto dirle che avevo nostalgia dei tempi in cui godevo della sua compagnia, insomma la trovavo bella, davvero seducente e che anche se lontano ero pur sempre un suo parente.

Lei mi ha guardato come si guardano i bambini, mi ha chiesto se sapevo dov’erano i grissini, vedendomi perplesso di scatto s’è voltata e in men che non si dica l’Italia se n’è andata…

Italia antico amore hai perso l’allegria e forse non ricordi l’antica cortesia, ebbene sì lo ammetto ci son rimasto male – che diamine, potevi almeno salutare!

Però malgrado tutto, ti voglio ancora bene

qualcosa di me stesso ancora ti appartiene,

ti piace far la stronza e farmi disperare,

ma so che un giorno o l’altro ti rivedrò ballare…


E’ una settimana che ci penso e tuttora ci rimugino.
Ripenso a dove mi trovavo lo scorso venerdì.

Sto vivendo una specie di sospensione.
Non ho trovato il tempo, e le parole, per ricordare.

Voglio essere sincera: non le ho volute trovare.

Mi hanno urtato le tante ricorrenze, specialmente i tanti servizi da parte degli stranieri.

Ho un rapporto personalissimo con Sarajevo, fatto di un amore a distanza di quelli adolescenziali.  Io 18 anni e lei qualche secolo in più di me. Io lontana, che la guardavo attraverso i libri e i video terribili di allora e lei lì, così altezzosa e sicura di sé nonostante il massacro. 

E poi i viaggi. I cambiamenti.

Crescevo io e cambiava lei. Si rifaceva il trucco. Anche un po’ pesantemente, oggi. Un po’ puttana, oggi.
Ma sempre così, fiera, altezzosa e sicura di sé.

Posso dirlo, sono quasi gelosa di questa città, ma visto che lei non mi appartiene e io non appartengo a lei, non mi oppongo a ciò che accade, e anzi, lo riconosco pubblicamente.

Sì, questa è una dichiarazione d’amore. Amo Sarajevo. 

…dicevamo.

Sarajevo nel ventennale dell’inizio dell’assedio.

Uh. Non lo trovate …..Strano?

Ricordare un inizio e non una fine.

In Italia non festeggiamo l’inizio della guerra, ma il 25 aprile, la liberazione. La presa della Bastiglia indica la fine di una dittatura. Il 4 luglio decreta la nascita di un Paese…
Coincidenza (per chi crede nelle coincidenze) ha voluto che sino a poco tempo fa  il 6 aprile in Bosnia fosse un giorno di festa, la liberazione della città di Sarajevo da parte dei partigiani, nel 1945.
Oggi il 6 aprile è ancora la giornata di Sarajevo, ma non si commemora (e non si festeggia) la Liberazione, ma l’Occupazione.

Come molte altre date balcaniche, contrassegnate da curiose coincidenze, il 6 aprile del 1992 iniziò l’assedio della città, nel cuore dell’Europa. La città che sino al 1996 visse separata e mutilata da sé stessa, sotto il terrore delle bombe, dei cecchini, delle stragi. Senza acqua, luce o gas. Ma dimostrando una sua capacità di resistere alla barbarie e piangere i suoi morti, chiunque fossero.

11541 vittime ricordate vent’anni dopo da 11541 sedie rosse (made in Serbia, come fa notare qualcuno), più piccole quelle degli oltre 600 bambini uccisi, su cui vengono appoggiati non solo fiori, ma cioccolato, peluche, caramelle di cui sono stati privati durante l’assedio e di cui sono ora privi per l’eternità (anche se forse il Paradiso dei bambini è un enorme luna-park pieno di musica, zucchero filato e grandi pony di pezza).

MA la cosa più importante, più commovente, più drammatica e più giusta è che oggi a ricordare, al contrario di dieci anni fa, sono loro.

I cittadini di Sarajevo.

Lentamente e in silenzio entrano nel corso che dalla Alipasina Dzamija li porta verso la fiamma. Sono giovani, sono famiglie, ma io vedo sopratutto tante persone adulte. Donne e uomini con capelli grigi e bianchi che piangono in silenzio e non di certo a favore di qualche telecamera o fotografo sciacallo (come ai vecchi tempi… magari capita lo scoop di una vita! che strazio, morire due volte: sotto l’obiettivo di un cecchino e sotto l’obiettivo di un fotografo della Reuters).

La Patetica di Tchaïkovski sommata al cielo grigio che fa risaltare ancor di più questo rosso e queste lacrime comincia a farmi venire l’ansia, ma attraverso tre volte l’intero corso, anche per vedere i poster e le locandine attaccate sulle vetrine dei negozi (stranamente Mc Donald’s ha solo i suoi poster con in promozione gli hamburger) . Sono i poster della resistenza culturale e artistica di Sarajevo. Non avranno avuto il gas e avranno bruciato i loro alberi per riscaldarsi e cucinare, ma il senso dello humour non è mancato (purtroppo sopratutto a favore dei giornalisti stranieri e dei soldati Unprofor che hanno preso i poster come souvenir, ai tempi).

E che i giornalisti internazionali si ritrovino pure nell’Holiday Inn a bere vodka, mangiare kupus, e rievocare con nostalgia i bei tempi dell’assedio.
Che i politici e chi per loro facciano pure cerimonie self-centered.
Che i giovani freelance scattino foto ai bambini che lasciano sulle sedie dei loro coetanei morti in guerra i peluche.
E che noi italiani, europei, occidentali, andiamo pure a passeggio su questo corso.

In mezzo a una folla di sarajevesi che non ci guarda neanche, perchè hanno altro da vedere.

La ricorrenza è finita con un arcobaleno doppio di incredibile bellezza.

La sera, verso mezzanotte, sono passati a ritirare le sedie  e a seguire i camion delle pulizie con le spazzole hanno raccolto i fiori caduti dalle sedie.

La mattina dopo la Marsala Tita e la zona pedonale erano piene di gente che passeggiava e beveva il caffè.

So solo che adesso, oggi, una settimana dopo quel 6 aprile, si festeggia in Federazione il ventennale della creazione dell’Armata bosniaca, l’Armija.

Non so quando in Bosnia ci sarà un tempo per cucire,un tempo per guarire, un tempo per ricostruire, un tempo per ballare e un tempo per la pace. So quando c’è stato il tempo per fare altro. Per odiare, per bruciare, per ferire, per uccidere. E non è tanto lontano da ora.

 

Vent’anni dopo.

Pubblicato: aprile 3, 2012 in Uncategorized
Tag:, ,

Vent’anni.

Nella storia del mondo sono una briciola infinitesimale, ma nella vita di una persona (relativamente) giovane, hanno un certo peso. Se 20 anni fa mi avessero chiesto cosa avrei voluto fare nella vita, non so cosa avrei risposto. So che dopo quel 1992 la linea che ho sul palmo del mano mi ha condotto dove dovevo andare. So quanto mi è costato e so quanto è costato alla mia famiglia e ai miei affetti. E so quanto ancora oggi mi e ci costa.

Vent’anni fa avevo meno di 18 anni e per me Sarajevo era un luogo non tanto lontano nel mondo, che qualche decennio prima era stato teatro dell’attentato al baffuto Francesco Ferdinando a cui poi seguì la Prima guerra mondiale. Una data da ricordare negli esami di storia.

Soltanto qualche anno dopo, nel febbraio del 97, misi piede nella città che oggi è un po’ il centro del mio mondo. Con maggiore consapevolezza che Sarajevo non era soltanto una città della ex Jugoslavia titoista, famosa per essere tra i paesi non allineati e dunque un altro dato per i famosi esami di storia, ma era un luogo simbolo della barbarie contemporanea, vittima di urbicidio, resistente nei secoli alle strane pieghe che la storia prende.

Girava e gira tuttora questa storia, che durante gli anni dell’assedio, quando le biblioteche bruciavano e i musei venivano depredati, qualcuno abbia staccato dal pavimento la lastra su cui erano impresse le orme di Gavrilo Princip, posta nel luogo da cui il rachitico studente aveva fatto per caso e per fortuna fuoco all’arciduca. Lì, dove scorre il fiume Milijacka, passò ancora molta acqua e molto sangue, nel corso degli anni a venire.

Il ricordo che ho di quella Sarajevo del 97 è un viaggio lungo, partendo con un furgone rosso da Kljuc, dove l’Organizzazione con la quale tuttora lavoro aveva in atto un progetto di ricostruzione.

A causa di un ritardo nella consegna, non avevo il passaporto, ma mi ero convinta e avevo convinto i miei compagni di viaggio che era sufficiente la carta d’identità. Negli innumerevoli posti di blocco che incontravamo si stupivano un po’ tutti, ma la logica era ferrea: se l’han fatta passare gli altri, allora va bene così…quelle ombre grigie nella burocrazia socialista ancora permettono di trovare strane scappatoie. L’unico problema con quel documento in verità l’ho avuto dalle parti di Dobrinja, dove dei poco concilianti poliziotti ci hanno fatto capire che ci conveniva toglierci di torno in fretta, prima di andare troppo a fondo nel controllo documenti.

Mi ricordo allora le torri dell’Unis sventrate (e mi ricordo che quando mi chiamarono al telefono l’11 settembre di qualche anno dopo, mi ero stupita  che qualcuno avesse tirato giù di nuovo le torri di Sarajevo, sentendomi prontamente dare della rincoglionita), lo scheletro dell’Oslobodjenje, il Parlamento che crollava a pezzi, come del resto tutta la città. Le mine nei cortili a Dobrinja, le case incendiate a Grbavica, i cimiteri improvvisati, le scritte Pazi Snajper.

Poco traffico, macchine d’altri tempi, la Bascarsija sotto la pioggia. Era grigio, il tempo, ma non ho ricordo che fosse freddo, nonostante il periodo. Ero a Sarajevo, la città che dal ’92 avevo cominciato a leggere e vedere nei telegiornali e immaginare.

Oggi sono passati vent’anni. La città ha messo su il vestito della festa, per trovare tracce della guerra bisogna avere occhi abbastanza attenti specialmente in certi quartieri. E per fortuna che è così. Tutt’oggi mi viene l’orrore a vedere i tour che vengono organizzati: la Sarajevo dell’assedio, il war tour, le trincee e i campi minati. Penso che ci voglia una certa discrezione e preparazione nel visitare certi luoghi, perché è facile rimanere impressionati da quello che la guerra ha lasciato, a partire dal numero dei morti: 11.541. Penso che per rispetto di questi luoghi e di questi caduti, non sia giusto andare armati di macchine fotografiche a scattare a raffica delle immagini da mostrare agli amici al proprio ritorno. Buchi nei muri, proiettili, granate, tombe, il tunnel, le trincee, il campo minato.  Non voglio peccare di presunzione, ma per me questi buchi, queste rose di granata, questo tunnel significano qualcosa. Non posso associare ogni singolo proiettile a ogni singolo evento o a ogni singolo morto, ma è quasi come fosse così. Non posso partecipare al dolore individuale di ognuno, ma posso partecipare a quello collettivo. E la parola rispetto, è l’unica che mi viene in mente, quando penso a questa città e all’intero Paese, e a quello che ha vissuto.

Per questo penso sia necessario cercare di vedere Sarajevo con occhi nuovi. La guerra fa parte di Sarajevo e l’ha segnata con cicatrici incancellabili, ma per un turista di oggi – magari un ventenne – penso sia più significativo guardarla, facendo  un salto indietro nel tempo, perché per lui un cimitero, una targa commemorativa o un palazzo bruciato, nella maggioranza dei casi significa qualcosa che probabilmente ha visto solo in un film. E probabilmente non è qualcosa di  impressionante. E’ quasi un souvenir, chissà. Ma facendo questo salto nel tempo si può vedere la Sarajevo che era prima del 1992 e che è oggi. Non significa cancellare un pezzo di storia, ma vederla nel suo complesso. Le terme romane, la parte turca, le fortezze e le porte della città, i palazzi austroungarici, lo stile Secessionista viennese e il moresco, il primo tram in Europa, la parte socialista nella sua bruttezza, le Olimpiadi invernali dell’84. E naturalmente la sinagoga, le moschee, la chiesa ortodossa e quella cattolica nell’arco di poche centinaia di metri, come ancora oggi con orgoglio i sarajevesi mi dicono, quando in taxi mi vogliono parlare della loro bella città. Colto questo, di questa città, allora si può capire cosa abbia significato l’assedio di oltre tre anni. L’urbicidio, termine coniato dal grande architetto e pensatore Bogdan Bogdanovic.

Oggi sorgono centri commerciali, chiudono i musei. Nei negozi della Bascarsija si vendono lampade turche e nei locali si fuma il Narghilè. Nuove mode, al passo coi turisti di oggi, ma per chi cerca dei veri angoli sarajevesi, resistono locali demodè in cui rifugiarsi.

In questi tanti anni, penso di essere stata a Sarajevo almeno 2 volte all’anno, a volte per periodi lunghi, a volte per dei week end folli. 12 ore di macchina per mangiare dei cevapi da Zeljo.
Ho dormito in tante case diverse, ho conosciuto tante persone diverse. E ne incontro ancora oggi, nei posti più impensati.

Per me questa città resta un emblema, un posto dell’anima – oltre che un posto con un’anima.

Ho girato tutta la Bosnia (ed Erzegovina, come mi rimprovera spesso un’amica mostarina) – e non solo – in questi anni, una volta ho provato a fare il conto dei Km percorsi su strade balcaniche e di quante volte ho bucato, o quante volte ho rischiato di andare sotto un camion, o di scivolare sulla neve. Se la circonferenza della terra è di circa 40.000 Km io l’ho girata già almeno 8 volte, facendo la tratta Milano – autostrada della fratellanza e dell’unità.

E nonostante i sentieri sterrati e i tanti piccoli posti visitati, se penso alla Bosnia, penso a lei, Sarajevo.

Perché era una piccola Bosnia, ma anche qualcosa di più. Un luogo di cultura, di tradizioni, di patrimonio che per me, milanese e occidentale, assomiglia di più a quello che è il mio quotidiano. Da un anno vivo a Bihac, nella Krajina occidentale, e per quanto questo posto si dia arie di città, c’è un abisso dal mio mondo. Per questo Sarajevo mi è vicina, perché trovo dei punti di contingenza. Sicuramente non architettonici, ma come flussi, come luoghi di cultura, come atteggiamenti di apertura e freddezza al tempo stesso. A Sarajevo la gente non ti fissa per strada come succede nei piccoli centri, ma se ti fermi a parlare puoi star certo che avrai attorno a te una folla di gente curiosa e pronta ad aiutarti.

Ma la Bosnia Erzegovina è una e unica, Jedna i Jedina, e sì, il 6 aprile del 92 è una delle date, ma non è l’unica da ricordare in questo Paese. Come in ogni tragedia ci sono poi dei simboli che la racchiudono tutta e come in ogni storia ci sono dei ricordi e dei momenti più significativi di altri.

E non è un caso che le prime vittime dell’assedio di Sarajevo siano state uccise durante una manifestazione per la pace, che siano donne, e che non siano di Sarajevo. Già da questo, si capisce tanto.

Parlare oggi di Sarajevo per me significa ricordare un luogo – speciale – che mi ha segnato nell’immaginario prima che nel vissuto reale, ma anche ricordare un intero contesto.

Nella primavera del ’92 le città della Bosnia orientale erano in fiamme e le persone che ho conosciuto nei campi profughi dove sono stata come volontaria venivano da lì, da Doboj, da Bijelina, da Zvornik, da Modrica. Oggi, molte delle campagne attorno a queste città, sono coltivate soltanto a rovine, case bruciate dove nessuno farà mai ritorno.

Vent’anni.

Potrei andare avanti a scrivere molte cose, di questi vent’anni. Forse un giorno raccoglierò i ricordi e i pensieri e cercherò di dargli una forma, ma non oggi, non ancora.

Potrei parlare, di come per me tutto è cominciato, ma non è lo spazio e il luogo. Come tutto sta continuando, ma anche questo non è il momento.

Posso solo dire che non pensavo, vent’anni fa, a 17 anni, di innamorarmi così tanto di una storia, di un luogo, di un popolo. Perché per me esiste un solo popolo, quello bosniaco. E sono anche stanca di tante parole spese, di tante continue polemiche ancora oggi, specialmente tra chi viene da fuori, su questo tema.
Serbo, croato, bosgnacco.
Lasciamo che siano loro a decidere come chiamarsi e scopriremo tante cose nuove sul modo in cui oggi un abitante della Bosnia Erzegovina si definisce.

Non più tardi di dieci giorni fa ho accompagnato mia sorella a fare un reportage per il settimanale  per cui scrive e abbiamo intervistato 11 ragazzi e ragazze di Sarajevo e non solo, nati tutti nel 1992.

La guerra è lontana, per loro. Ed è giusto che sia così. Sono persone che vogliono immaginarsi un futuro diverso da quello dei loro genitori. Vedono la Bosnia come un luogo in cui vivere e lavorare, che ha del potenziale e che sta facendo molti progressi. Vogliono un lavoro adeguato alla loro carriera scolastica e sono stanchi delle solite spintarelle di cui molti usufruiscono. Non guardano il film di Angelina Jolie perchè per loro è troppo brutale.

La guerra è, dalle parole di una loro fuggita in Germania ai tempi dell’assedio, un’immagine dei proiettili traccianti vista in televisione e io che chiedo ai miei genitori di cambiare canale, perché quel film non mi piace.

Ecco, questa semplicità nel ricordare qualcosa di lontano, mi fa dire che oggi, vent’anni dopo, si scontrano fortemente due mondi. Leggendo le parole di molti in questi giorni, di gente di fuori, mi viene da dire: lasciamo in pace questa terra. Perché secondo me, loro non hanno bisogno di noi, ma se giro la frase, faccio una domanda: noi abbiamo bisogno di loro? Rispondo di sì.

Perché percepisco quel bisogno di adrenalina tra le righe dei giornalisti che stanno organizzando una Reunion a base di cavolo e caviale, vestiti in combat gear e/o abito scuro, all’Holiday Inn.

Un bisogno di incontrarsi e rievocare, provare, rivivere quelle sensazioni vissute ai tempi, quando i proiettili ti fischiavano vicini, quando alcuni di loro avevano i capelli ed erano più magri, quando era emozionante fare uno scatto a un moribondo con la macchina fotografica e pagare cifre spropositate per una vodka al mercato nero, da bere nello scantinato dell’albergo. Quando un’elite che poteva pagare esorcizzava la morte che gli alitava vicino, bevendo, scopando, fumando. Era emozionante sentirsi vivi.

Non voglio dire che il ruolo dei reporter di guerra sia un ruolo secondario, se non ci fossero state queste persone, difficilmente il mondo avrebbe avuto l’orrore in copertina, come vent’anni fa succedeva. Abbiamo visto i lager, le stragi, il genocidio in diretta, ai tempi. Ma sappiamo anche dei servizi falsi, delle persone messe in posa, delle notizie vendute, così come oggi sappiamo anche le cose che non ci erano state dette.

E’ che a proposito di tutto questo, oggi, vent’anni dopo, mi interrogo sullo spirito con il quale stiamo per vivere queste giornate.

E’ una giornata del ricordo, è un’occasione per fare analisi, critica, memoria. Ma anche un momento per vedere il presente e il futuro.

La fatica che vedo, nelle parole che sento e che leggo, è quella di riuscire a leggere l’oggi e pensare a un domani, senza continuare a tornare indietro. Ricordare è un diritto civile. Imparare una prerogativa di pochi.

Ho come la sensazione che ci sia quest’entusiasmo quasi morboso, oggi, in tutto questo correre a ricordarci dei vent’anni. Ma i diciannove sono stati meno importanti? E quando saranno 24 non avranno lo stesso peso? I morti muoiono solo nei multipli di dieci?

La Bosnia è stata pacifismo, volontariato, militanza, sangue, martirio, politica, interventismo, aiuti umanitari, bambini, mercato nero. Un frullato di tante diverse cose, in cui noi siamo stati allo stesso tempo attori e spettatori.

Ancora oggi non sappiamo che parte metterci. Attori o spettatori? O è una di quelle tragedie in cui il pubblico è parte fondante dello spettacolo ed è responsabile di come va a finire? Siamo da vent’anni in uno strano esperimento di teatro dell’improvvisazione in cui l’unico prezzo da pagare è la vita di qualcun altro?

Vorrei che seguissimo o quantomeno cogliessimo il dignitoso esempio di chi i vent’anni li ricorda ogni giorno, in silenzio.
Le 11.541 sedie rosse vuote che attraverseranno l’arteria principale di Sarajevo nel giorno del 6 aprile 2012.

Le 11.541 persone che hanno lasciato un posto vuoto e che oggi sono in silenzio, ma presenti come non mai.

I temi da scegliere per cominciare bene il 2012 bosniaco non sono pochi. In primis qui, subito dopo Natale, hanno formato il nuovo governo (dopo 14 mesi di empasse e rimpalli di responsabilità da parte dei partiti politici – inutile dire nazionalisti – al potere). L’accordo tra le 3 parti (del tutto fumoso per ora) prevede una certa volontà di mettere a posto alcune cose, tipo la legge sul censimento (che non si fa dal 1991) e altre situazioni che dovrebbero finalmente aprire la lunga strada verso l’Unione Europea. Come si dice da noi: ha da passà a nuttata…. Ma per ora dovrebbe arrivare una bella iniezione di fiducia da parte del Fondo Monetario Internazionale (leggi: denaro liquido sonante nelle casse dello Stato = altri soldi da spartirsi e sputtanarsi tra gli amici).

Quel che però mi colpisce di più è una notizia di un paio di giorni fa: chiude il Museo di storia contemporanea di Sarajevo.
20 anni dopo l’inizio della guerra in Bosnia.
Motivo scontato. Banalmente, pochi visitatori, troppi costi.

Chiude dopo che altre istituzioni culturali della città hanno già chiuso e altre ne chiuderanno.

Chiuso perché celebra la resistenza e lo spirito multiculturale di una città, che oramai si è perso e ora, dopo quindici anni di politica estremista e nazionalista, si può finalmente cancellare le tracce di un passato che a qualcuno dà fastidio. La storia di chi ha saputo vivere insieme, nel periodo del Male, facendo del Bene.

Un po’ mi piange il cuore.

E’ uno dei miei primi ricordi. Nel febbraio del 1997 quando arrivai per la prima volta nella capitale ancora distrutta, vuota e umida, mi ricordo che ci fermammo col furgone proprio di fianco a questo basso edificio bianco, appena di fronte all’Holiday Inn.
E mi ricordo due cose,  sulle pareti bucherellate dell’edificio, come se fosse una foto che ho stampata in testa indelebilmente: la scritta Pazi snajper! (attenti al cecchino) e il poster del Papa che diceva: Niste sami, Papa je sa vama! (non siete soli, il Papa è con voi. Scritta che poi venne modificata col solito humour sarajevese, a seguito della disdetta della visita del Pontefice in: Niste sami, Papa jebi Vama! Non siete soli, il Papa vi fotte!).

Negli anni successivi numerosi investimenti per la ricostruzione diedero una mano di bianco all’intera città, vecchi edifici ristrutturati, altri distrutti per fare spazio alle nuove costruzioni in vetro e metallo della “city” o a scintillanti ed enormi centri commerciali uno via l’altro (come quello Turco che sta per sorgere negli spazi della Fabrika Duhana Sarajevo, la Fabbrica di Tabacco).

In tutta questa frenesia del mattone anche lo Zemaljski Muzej venne ristrutturato per fare spazio alla ritrovata Haggadah, ma nessuno si curava del suo fratello minore, il bianco cubetto socialista poche centinaia di metri più in là, sul viale dei cecchini.

Sin quando un tale Renzo Piano non ridiede forza e non rilanciò un’idea già nata ai tempi dell’assedio, quando oltre che resistenza fisica alla morte, si faceva resistenza culturale.
Dare vita a un’isola dei Musei, dando risalto a quelli già presenti, progettandone di nuovi e raccogliendo opere da autori di tutto il mondo e creando uno spazio per esposizioni permanenti all’aperto (quali la sarcastica scultura di Soba, che ringrazia la comunità internazionale riproducendo in grande una scatola di carne in scatola, Ikar, dal contenuto misterioso e dalla data di scadenza non definita, che veniva inviata ai cittadini sotto assedio come aiuto umanitario).
Per dar forza all’idea, il buon Renzo donò a Sarajevo il ponte pedonale che da Grbavica porta sul viale dei tigli, la promenade sulla Milijacka, la Vilsonovo setaliste.
Questo è (in effetti è ancora in corso, ma forse si potrebbe dire era) il progetto Ars aevi (i più scaltri vedranno che si tratta di un geniale anagramma di Sarajevo).

Detto fatto, anche il piccolo edificio bianco con le scale sgangherate, tornò a nuova vita. Certo, sempre tutto bucherellato, e con l’ingresso un po’ nascosto. Ma comunque riaperto.

Il museo, oltre che custodire vecchie polverose statue di Tito e del tempo di Tito, ha in cortile un giacimento di carcasse di mezzi militari che durante l’epoca socialista piacevano tanto e che ora in parte sono finite nell’adiacente giardino del Tito bar (che paga un affitto al Museo per l’uso di alcuni suoi spazi), dal 2003 ospita una mostra permanente sull’assedio.
Nel salone del piano superiore sono conservati oltre che numerosi articoli di giornale, locandine degli eventi culturali ai tempi dell’assedio e fotografie, divise e fucili dell’Armija, insieme a numerosi e stravaganti oggetti di uso comune, sia ad uso bellico (fucili e altre diavolerie per sparare fatti in casa) che per la vita quotidiana in una città assediata.
Si va dalle stufe fatte con i barili dell’olio, ai generatori ricavati dalle batterie dell’auto oltre che tutti i tipi possibili e immaginabili di conserve e scatolette che arrivavano come aiuti umanitari.
C’è anche la ricostruzione di una casa durante l’assedio (abitazioni che venivano ridotte ai minimi termini, utilizzando solo gli spazi senza finestre per ridurre il rischio delle granate e dei proiettili e per risparmiare sul riscaldamento) e una bancarella autentica del mercato all’aperto, tristemente celebre per la strage dell’estate del ‘95.

E poi ci sono i libri di ricette: come fare una torta senza zucchero farina e uova, o un manuale per “sopravvivere agli aiuti umanitari”.
Le sigarette fatte su nella carta di giornale.
Le copie di Oslobodjenje stampate su un foglio solo perché non c’era la carta.
La prima bandiera coi gigli che sventolò sul Parlamento al momento della proclamazione di indipendenza.
E un cartello “Pazi snajper!” scritto su un pezzo di cartone, con la vernice bianca, che tutti noi abbiamo visto in Tv o sulle foto dei giornali.

La celebrazione della volontà umana di non piegarsi alla barbarie, ecco cos’era questa esposizione. La capacità del’uomo di inventare, di improvvisare, di resistere a una morte ingiusta.

E ora chiude questo luogo di memoria e resistenza, la luce si spegne sulla splendida vetrata di Voje Dimitrijevića che ci ricorda: Morte al Fascismo, Libertà al Popolo!
Motto dell’era socialista che oggi più che mai diventa di attualità.

Eh sì, perché per me non è la crisi, la ragione della chiusura del Museo. Né a Sarajevo, né da noi.
Ma è un ritorno di un fascismo inteso nel suo sinonimo oppressivo, rigido, chiuso, un fascismo mentale che ci ottenebra, che subiamo passivamente e che tarpa le ali alle idee, alla libertà e al diritto di espressione.
Stiamo assistendo immobili e impassibili a tagli della cultura, incapaci di reagire, inchiodati davanti al nostro I-phone, giochiamo con gli amici e la famiglia con la nostra Xbox, scarichiamo musica e film e non andiamo più ai concerti, al cinema e alle mostre d’arte. I teatri chiudono, i fondi per gli spettacoli e per gli attori non esistono più, ma noi stiamo zitti. In fondo è roba da intellettuali.

E chiude, il museo di Sarajevo, poche persone provano a opporsi al lento spegnimento di questo e altri luoghi di cultura di questa misera capitale nel cuore d’Europa, eppure così ricca di piccoli gioielli da scoprire, così brillante di notte dall’altro, così calma nel silenzio della sua valle d’inverno, quando le macchine non girano bloccate dalla neve.

Sì, chiude questo piccolo museo, e ciò che contiene. Ma forse nel Maggio 2012 nascerà un museo “virtuale”, a memoria dell’assedio, voluto da un consorzio di teste dure, tra i quali la compagnia di produzione indipendente FAMA che durante la guerra filmò e documentò la vita di tutti i giorni in Sarajevo realizzando un documentario di 5 e che pubblicò la celebre Sarajevo Survival Guide e l’altrettanto celebre Sarajevo Survival Map, a topography of life and death. O quelli del MESS gli organizzatori del Festival di Teatro Internazionale di Sarajevo che pubblicano nella loro homepage una lettera di sconcerto e reazione alla chiusura del Museo di storia contemporanea (e alla probabile imminente chiusura dello Zemaljski Muzej).

In conclusione, noi la lezione l’abbiamo già ricevuta. Sarajevo, la Gerusalemme europea, dalle sue ceneri è risorta e ha resistito al fascismo delle bombe e della pulizia etnica e ha saputo ridere dei suoi aggressori e di sé stessa ed è questo che l’ha salvata. E noi, tutti noi, ci salveremo?

 “Dietro le palpebre chiuse, ho visto come Sarajevo, così distrutta e così amata, amata come mai prima d’ora, si sollevava da terra, iniziava a volare e volava via, volava là dove tutto è placido e beato, volava nella più profonda interiorità della realtà, là dove può essere amata e sognata, là da dove ci può ridare la luce di una percezione di senso e di scopo. Ma questo vuol dire, Dio mio, che alla mia Sarajevo ho già rinunciato? Vuol dire che in questo mondo non esiste più la Sarajevo che conoscevo e amavo”? (D. Karahasan, Sarajevo, il Centro del mondo).


E per approfondire, ecco un po’ di fonti: 

Articolo con foto sulla chiusura del Museo (in BCS): http://www.radiosarajevo.ba/novost/71004/treca-je-pala-historijski-muzej-je-zatvoren

Video di presentazione del progetto realizzato dall’Università di Elettrotecnica Museo virtuale “Oggetti della guerra di Sarajevo” con gli oggetti conservati nel Museo di Storia Contemporanea: http://www.youtube.com/watch?v=lbz1_rELB0Y

Il progetto del’Università “Oggetti della guerra di Sarajevo”, oltre al video di cui sopra, per ogni oggetto ci sono filmati di vita reale, riproduzioni video, foto e altre risorse: http://h.etf.unsa.ba/srp

Il sito del Progetto culturale Ars Aevi: http://www.arsaevi.ba/

La lettera dell’autore Nejbosa “Soba” Saric sulla sua opera, la scatoletta Icar (in inglese): http://balkansnet.org/zamir-chat-list/transfer/nss/eng.html

Estratto della Sarajevo Survival Guide della Compagnia multimediale FAMA (in inglese): http://www.friends-partners.org/bosnia/surintro.html

Fotogalleria di Sarajevo durante l’assedio: http://www.sa92.ba/v1/index.php

Che dire….Il week end non è stato certo noioso!!!

Statisticamente è ovvio che se uno percorre mille Km in Bosnia becca un sacco di pattuglie di poliziotti, e fin qui ci sta.
Ma la soddisfazione che nemmeno con Mastercard puoi avere è che su ben 3 tentati assalti alla diligenza (leggesi poliziotti bosniaci che cercavano di taglieggiarci) nessuno è andato in porto. Nonostante abbiamo viaggiato in incognito, con auto bosniaca semi-sgangherata (dopo torno sulla descrizione della Opel Corsa) mi hanno infatti fermata per: un controllo casuale, una lampadina fulminata, un eccesso di velocità (poca roba). I più insistenti sono stati i serbi dell’eccesso di velocità tanto che il pulotto aveva pure cominciato a scrivere lo pseudoverbale col quale mi chiedeva gentilmente una donazione alle sue tasche di 40marchi. Al  mio far finta di niente e alla mia convinzione di volere andare per forza a pagare in banca come da procedura, il poliziotto ha chiesto la resa. Poi siamo pure diventati amici, e non credeva a come parlavamo bene la loro lingua (ma sei italiana al 100% ???). I poliziotti della freccia bruciata (ce n’è una collezione sulla Opel di magagne) erano invece amichevoli e paternalisti, e non avevano voglia di far niente (forse erano di origine montenegrina….).

Ad ogni modo, le parti pacco del viaggio sono state: – la pioggia. – il guasto all’impianto di raffreddamento. – le strade segnate male sulle mappe.

La somma dei 3 fattori non è cosa da poco, per chi le mette bene insieme.

Test: vi trovate in un bosco in auto in un sentiero fangoso, là dove la cartografia riporta una strada normale, vi si surriscalda il motore e comincia a piovere. Cosa fate?

a) chiamate la Nato, l’Onu, l’Eufor e chiunque vi venga in mente che vi tiri fuori da lì, compreso l’esercito della salvezza e gli harekrishna

b) siete come Mc Giver, riparate il motore con un chewingum, pisciate nel radiatore e obbligate un orso che passava di lì a tenere un ombrello sulla vostra testa – dopo lo uccidete a mani nude lo scuoiate e lo mangiate. nel frattempo si scopre che non siete in un bosco ma in un’isola abitata da una popolazione ostile: gli Altri…

c) ripartite sgommando nel fango e buttando acqua nel cofano ogni tanto, e date retta a un consiglio del vostro meccanico che raccontava di quando una volta aveva fatto un viaggio dalla sicilia a milano con il riscaldamento acceso, per “abbassare” la temperatura nel motore in via di esplosione.

Ed è così che effettivamente andò: memore di aver già fatto fuori un motore di una punto in autostrada a seguito del malfunzionamento del termostato, appena mi sono accorta di aver fatto bingo nel termostato della Opel dopo l’attraversamento imprevisto di un bosco che in teoria non doveva essere lì, ci siamo fermati, e abbiamo versato i primi 2 litri (su 7 totali versati nell’intero viaggio) di acqua nel cofano. Insomma la Opel è completamente fiammata, carissimi, e non si sa per intercessione di quale santo non siamo finiti arrosto.
Per migliorare il rendimento del motore, ho dato retta al consiglio del mio meccanico, che tempo fa mi disse: Silvia, se ti troverai con un motore surriscaldato e senza impianto di raffreddamento, ricordati, versa acqua fredda e viaggia col riscaldamento acceso!
Insomma, abbiamo dato via all’operazione Vortice. In pratica abbiamo viaggiato negli ultimi 400 Km con il riscaldamento a palotta e i finestrini  abbassati, dando il via a un nuovo scombussolamento climatico sulla Terra.

Ad ogni modo, concludendo per oggi: il viaggio è andato bene, ho incontrato un po’ di amici che non vedevo da un po’ sparsi per la Bosnia orientale, ed è bello perchè è un po’ un ritrovarsi. Poi per alcuni di loro è un modo di uscire da una quotidianità magari di paese e quindi la tua visita è una cosa di cui parlare per un po’, un ricordo nuovo, un momento da aspettare  e da pregustare. Per questo, quando vado in visita nei villaggi, dalle mie donnine che mi preparano le sarme e mi regalano le papuce, sono sempre particolarmente brillante, per imprimere maggiormente il ricordo. So che mi vorrebbero bene anche se fossi stanca, incavolata e silenziosa, come solo io so essere, ma so che posso fare di più a volte e uscire dai miei momenti da nuvoletta nera, per regalare 5 sorrisi in più a chi a volte non sorride mai.

Ed ora, un po’ di foto galleria!

In attesa, forse, di ripartire…

Vahid si mette all’opera. Manco le luci funzionano…


Merima e Sedina


Una Smart che si crede chissà chi…

La mia “Fata” di Srebrenica. Dal balcone di casa